Tratto dall’omonimo romanzo di William Makepeace Thackeray, La fiera della vanità (Vanity Fair, GB-Usa, 2004) della regista indiana Mira Nair è un film melenso, con una pessima sceneggiatura, prolisso nelle scene, piatto nell’evidenziazione dei dettagli fondamentali per l’intreccio, improbabile nella recitazione, stucchevole nella fotografia, superficiale nell’introspezione dei personaggi, per nulla coinvolgente nel commento musicale, poco emozionante nel complesso.
Nel film c’è di tutto, e tutto appare come arruffato, e se questo arruffamento era inteso per farci vivere nella giostra di vicende ambientate in una svolta epocale della modernità l’intento non è affatto riuscito. La pellicola inscena solo sparsi rimasugli di quell’epoca brillante, piena di avvenimenti, emozioni, illusioni e delusioni, che fu il Romanticismo. L’ambientazione de La fiera della vanità è la nazione guida del suo tempo, la Gran Bretagna. Il film tocca, senza svilupparle, le tematiche più scottanti dell’epoca, dall’avvento della borghesia imprenditoriale all’imperialismo e alla globalizzazione, dalla questione femminile all’inesorabile declino della classe nobiliare.
Nel film c’è di tutto, e tutto appare come arruffato, e se questo arruffamento era inteso per farci vivere nella giostra di vicende ambientate in una svolta epocale della modernità l’intento non è affatto riuscito. La pellicola inscena solo sparsi rimasugli di quell’epoca brillante, piena di avvenimenti, emozioni, illusioni e delusioni, che fu il Romanticismo. L’ambientazione de La fiera della vanità è la nazione guida del suo tempo, la Gran Bretagna. Il film tocca, senza svilupparle, le tematiche più scottanti dell’epoca, dall’avvento della borghesia imprenditoriale all’imperialismo e alla globalizzazione, dalla questione femminile all’inesorabile declino della classe nobiliare.
Della chirurgica introspezione psicologica della protagonista e del “crudele bisturi” di Thackeray, per usare un’espressione di Charlotte Brontë, non resta davvero nulla nel film. L’ascesa sociale di Becky Sharp (interpretata dall’attrice statunitense Reese Witherspoon), che attraverso l’astuzia e la buona educazione si affranca dalla condizione di diseredata, non è descritta attraverso una costruzione adeguata del personaggio, ossia una sedimentazione delle sue esperienze. Becky è vista piuttosto da un’ottica esteriore, attraverso battute e situazioni ripetitive che hanno l’effetto di annoiare piuttosto che di produrre un incremento dell’attenzione dello spettatore. E questo vanifica il grande impegno interpretativo di Witherspoon.
Tutte le tematiche del film restano solo accennate come dato esteriore, dai matrimoni d’opportunità all’amore romantico, dal curry ai pappagalli indiani, dalla ricerca di un titolo nobiliare alla paura di Napoleone da parte dei nobili. Dico “paura”, perché tale sembra nel film, mentre all’inizio dell’Ottocento si trattava di terrore e di un grande sentimento di angoscia, come sappiamo dalle tante lettere di aristocratici dell’epoca, e non perché si trovassero indifesi, come nel film, con l’Armata del Nord alle porte della città, ma a migliaia di chilometri, protetti dai propri eserciti.
Il guaio del film mi sembra consista in una mancanza di ispirazione, di tendenza a tracciare una direttiva di senso fatta di un numero limitato di dominanti tematiche. È un po’ quello che accade sul versante tecnico del film, con la fotografia nitida ma poco memorabile di Declan Quinn, con l’impiego di tecniche di offuscamento e messa a fuoco delle immagini ad esclusione alternata dei piani, che appare in contrasto con un uso estetico delle tecniche stesse, finalizzato a produrre un tipo particolare di emozione. Oltre a qualche trovata, tesa per lo più a far ridere, come l’uscita a natiche scoperte dell’anziana Lady Crawley (Meg Wynn Owen) dalla tinozza da bagno, in un film peraltro molto casto sul versante iconografico, alcune sequenze presentano situazioni promettenti, che finiscono sempre per deludere, fino a stancare.
Il film è stato scritto, e lo si vede, da una coppia di sceneggiatori televisivi (Matthew Faulk e Mark Skeet), affiancati da Julian Fellowes, premio Oscar nel 2001 per Gosford Park di Robert Altman: risente, infatti, di tutti i difetti tipici di un testo che voglia intrattenere un pubblico di massa piuttosto che far calare a capofitto lo spettatore nel dramma quotidiano di un personaggio avvincente come Becky Sharp. Il commento musicale, per cui si sarebbe potuto attingere dalla vasta produzione romantica con imbarazzo della scelta, sembra messo lì a forza, solo perché in un film in genere c’è anche la musica.
Il cast presenta attori di primissima scelta, come l’inglese Bob Hoskins (Mona Lisa; Chi ha incastrato Roger Rabbit?; Il viaggio di Felicia) e l’irlandese Gabriel Byrne (Gothic; L’ora del tè; Stigmate), ma non si sa se recitino con indolenza o con inutile bravura, limitati quali sono dai dialoghi troppo retorici e schiacciati dal pessimo uso della macchina da presa e del montaggio. Per cui il fiume di lacrime sul viso della brava Reese Witherspoon difficilmente sortisce qualche effetto emozionante.
Pessima la scena dei cadaveri della battaglia di Waterloo, che sembrano manichini piuttosto che puzzolenti corpi amati, carichi di quei paradossi della vita che ci rendono ancora vivi i testi di Shakespeare. E ancora peggiore, in India, la postura trasognata e ammiccante, da studio di posa, di William Dobbin (Rhys Ifans), spasimante incompreso di Amelia (Romola Garai), la migliore amica di Becky.
Si ride un po’ e, a parte una bella esecuzione canora di Becky, c’è poco da vedere, per chi non sia interessato alla scenografia, ai costumi o a qualche ilare scenetta. Forse a qualcuno non parrà troppo poco per un film di due ore e venti.
[pubblicato su Notizie in... Controluce, luglio 2005.]
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