15 giugno 2009

Stanley Kubrick: "Eyes Wide Shut"

Era attesissimo da un anno l’ultimo film di Stanley Kubrick Eyes Wide Shut, e ciascun addetto ai lavori si aspettava, con la propria aria di esperto, di trovarsi di fronte l’ennesimo capolavoro del regista newyorkese. Fra i meno esperti, v’era chi avrebbe gioito nel vedere la trasposizione cinematografica del romanzo Traumnovelle (Doppio sogno) dello scrittore austriaco Arthur Schnitzler. Qualche altro, pensando che Kubrick fosse l’unico regista che potesse realizzare un’opera pornografica di valore, già pregustava le tinte forti dell’erotismo esplicito su pellicola, dimenticando fra l’altro l’abilità di altri grandi registi, primo fra tutti Ken Russell.

Invece Eyes Wide Shut ha deluso le aspettative dei più, già a partire dai primi commenti veneziani. In effetti, questo film non segue i modelli classici della cinematografia fin qui esperiti. Ha qualche cosa di teatrale, che, pure, si tiene a debita distanza dalle trasposizioni cinematografiche dei vari drammi di Sofocle, Machiavelli, Shakespeare, Molière e Goldoni.

Un indizio dell’operazione condotta da Kubrick in questo suo lavoro la troviamo nel titolo: Eyes Wide Shut, che, riprendendo l’espressione wide open («ben aperto», formata da «largo» e «aperto»), la mutua in un ossimoro che, di fatto, asserisce che gli occhi sono chiusissimi quando sono ben aperti. Inoltre, shut-eye vuol dire «sogno», ristabilendo con una serie di giochi di parole un punto di contatto con il titolo di Schnitzler.

L’occhio aperto e chiuso insieme è proprio l’effetto che Kubrick ha voluto dare attraverso l’uso della macchina da presa, la quale chiude i personaggi nell’inquadratura e taglia dal campo gli scenari in cui agiscono. L’effetto che se ne ha è quello della chiusura dello spazio umano dentro una sorta di urna di vetro, che si sposta come un involucro intorno al protagonista, il dottor Bill Harford (Tom Cruise).

I luoghi, inoltre, perdono la loro entità tradizionale, come qualsiasi oggetto che, estrapolato dal proprio contesto, viene proposto a se stante: tutta l’atmosfera che circonda l’oggetto non viene accesa nella nostra mente, anzi si ha un senso di tradimento degli oggetti e dei luoghi comunissimi che entrano nell’inquadratura. New York stessa diventa una città verticale, senza orizzonte a perdersi, tutto il contrario dell’atmosfera ampia della città finanziaria che vediamo nei film di Woody Allen, al telegiornale o di persona.

Gli spazi chiusi dall’inquadratura (sia gli interni che gli esterni) diventano allora una sorta di ready-made, ossia di quegli oggetti come l’orinatorio rivoltato o una ruota di bicicletta che, all’inizio del secolo, l’artista Marcel Duchamp propose ad alcune gallerie newyorkesi. Nel film di Kubrick l’uomo diventa un oggetto, quasi un automa, certamente un alieno nel luogo in cui abita. L’occhio, una volta che è «ben aperto» sul dettaglio, «chiude» ogni visione d’insieme, giacché ciò che l’uomo cerca è un quadro d’insieme in cui collocare il dettaglio.

Bill, muovendosi di dettaglio in dettaglio, non riesce ad avere un quadro d’insieme giacché non ha un pensiero d’insieme in cui collocare i nuovi indizi. La sua visione del mondo e della donna è fatta di quelle certezze comuni che prescindono e precludono qualsiasi quadro conoscitivo, nella misura in cui pretendono di far rientrare nella propria inesperienza scenari molto più ampi e articolati, ponendosi domande a cui nessun uomo saprebbe dare una risposta definitiva.

Emblematica è la scena dell’incontro con Victor Ziegler (Sydney Pollack) nel finale del film. Quest’ultimo, a differenza di Bill, non soffre più di tanto per la morte di Mandy (Julienne Davis), una prostituta tossicodipendente che il medico aveva soccorso nella stanza di Victor, perché, nella sua ottica, ce ne sono tante così a questo mondo.

Bill è un uomo che si muove fra oggetti alieni e personaggi alieni, secondo una certa tradizione letteraria che ha avuto i suoi esiti più noti nella fantascienza. Ma Kubrick, a differenza della fantascienza e dei suoi eroi positivi e negativi, ci rende più alieno di tutti il protagonista stesso, evitando di costruire un dualismo fra bene e male. La diversità etnica, così copiosa anche nella più tranquillizzante cinematografia americana (per esempio i film comici e le commedie), diventa qui inquietante attraverso meccanismi di trapianto di stilemi teatrali differenziati (Marion Nathanson da una parte e Milich dall’altra), del cinema orientale (i due pedofili giapponesi), del thriller americano (il pedinatore) ecc.

La sensualità è annullata attraverso un meccanismo espositivo che fa del corpo null’altro che un oggetto ammirabile, senza tangibilità e scambio reciproco (senza spirito), in cui il sesso è ridotto a simbolo, sia come surrogato all’infedeltà mentale della moglie di Bill, Alice (Nicole Kidman), sia come rito collettivo dell’atto copulatorio senza intimità e piacevolezza, come viene evidenziato dalla scena in cui un uomo in piedi e una donna supina su un uomo, che la sostiene come un tavolino, si impegnano in una congiunzione beffarda, dalla ritmica ginnica: i due sono nudi e mascherati, e il gesto meccanico reiterato non dà evidentemente alcuna connotazione individuale ai personaggi, rendendo «mascherata», addirittura «vestita», la loro nudità e il loro gesto.

Le molte nudità del film perdono il carattere di oggetto piacevole, pur rimanendo oggetto del desiderio. È perciò significativo che lo spogliarello iniziale di Alice sia sensuale, poiché esso precede il trauma di Bill, quel suo aprire gli occhi sulla realtà senza sapersi più orientare. Nella loro forma recitativa i personaggi, a partire da Bill, non costituiscono che stereotipi dell’umanità urbana. L'effetto d'eco delle voci, isolandole, smussa l'accavallamento di battute fra i personaggi, al punto da produrre il risultato del recitativo del teatro classico: prima parlo io, quando ho finito parli tu, quando hai finito tu parlo io ecc.

In effetti, Kubrick supera le concezioni recitative del teatro classico e del realismo cinematografico hollywoodiano, seguendo una terza via recitativa, quella del cinema hard-core, rendendo una piattezza dilettantesca ai personaggi e giocando con scenette di cattivo gusto di certo teatro istrionico e di certe produzione hard (anzitutto la francese). Un esempio della voluta piattezza recitativa del cinema hard la si osserva in film curatissimi come Stavros di Mario Salieri, in cui all’impegno scenografico, fotografico, costumistico, del truccatore ecc. non corrisponde un’adeguata interpretazione realistica da parte degli attori.

Questo modello, impiegando gli elementi meno verosimili dei migliori film tradizionali e hard (poca sensualità e poca caratterizzazione interiore), si avvale di una piattezza compositiva tenuta a una soglia di disturbo elevata, fino a produrre il senso d’alienazione desiderato. Ciò che doveva perdersi, per Kubrick, era la verosimiglianza del mito contemporaneo, così copiosamente costruito ovunque attraverso il carattere fittizio della rappresentazione.

Tutto come aperta denuncia dell’assuefazione del dolore dell’uomo contemporaneo, che, come il protagonista, non sa rimuovere il disturbo di drammi quali i tradimenti affettivi e sociali, la tossicodipendenza, la prostituzione, la sieropositività all’Hiv, la pedofilia, i suicidi, la perdita dei congiunti e la necrofilia, aggiungendo a questi quello di credersi anestetizzato fino al pianto finale. La società caricaturata da Kubrick è già la nostra.

[ puoi scaricare e leggere il racconto nel formato editoriale originale cliccando su: scarica PDF ]

[pubblicato su Notizie in... Controluce, n. VIII/12, dicembre 1999, p. 20.]

1 commento:

Anonimo ha detto...

Ciao Nicola. Ottima recensione. Credo che quello che hai scritto possa valere, in generale, per tutti i film di Kubrick - con l'eccezione, forse, di 'Orizzonti di gloria'. Quello che dici, tra l'altro, spiega perché vedendo uno dei suoi film - come ti dissi già una volta - sia difficile situarlo cronologicamente. Ciao stammi bene. Luciano.