Il film di Jean-Luc Godard Questa è la mia vita (tit. or.: Vivre sa vie, 1962), ha un’ambizione del tutto particolare: raccontare una storia individuale e renderla vera attraverso la messa a nudo del carattere fittizio della narrazione.
La protagonista Nana, interpretata dalla splendida Anna Karina, è una ragazza che aspira ad affermarsi come attrice e finisce per recitare un ruolo che l’ambiente degradato in cui vive le destina. Nana, a prescindere dalla sua aspirazione, imbocca la via della prostituzione, fino alla sua tragica morte, non dipesa da alcuna colpa sua, ma dal trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Jean-Luc Godard rifiuta di render la storia di Nana un mito drammatizzato, e rifiuta quindi le tecniche tradizionali attraverso le quali gli spettatori tendono ad immedesimarsi nella protagonista. Nana è anatomizzata dalla macchina da presa, che la riprende di spalle nella sequenza iniziale, per cui di Karina seguiamo il dialogo senza vedere che il retro dei suoi capelli, mentre il suo volto è vagamente riflesso nello specchio della caffetteria.
O, in altri casi, è lungamente ripresa di profilo o frontalmente, in un rimando a specchio che a lei ci avvicina e da lei ci ritrae. Godard mette in crisi il mito e il piacere perverso d’immedesimarsi in eroine tragiche. Non c’è nulla da scherzare, né si tratta di finzione quando si abbia di fronte una donna e il suo dramma personale.
Mentre noi seguiamo la storia di Nana, lei si rimpicciolisce rispecchiandosi passivamente nei miti cinematografici, libreschi, fotografici e musicali di cui il film è ricco nella sua certosina essenzialità.
I continui passaggi dalla soggettiva al ritratto, con l’entrata ed uscita di Anna Karina dall’inquadratura a macchina mobile, servono ad accrescere il carattere d’alterità della protagonista. Così come l’uso del bianco e nero ad alto contrasto ne deprecano l’intento realistico.
Nana è e deve rimanere una figurina minuta e psicologicamente impermeabile: il suo dischiudersi emozionale è illividito dalla mancanza d’un nesso causale dei suoi accessi emotivi, proposti da Godard essenzialmente a blocchi disgiunti, proprio per impedirci di accostarla affettivamente.
Insieme a queste tecniche, le didascalie tematiche che anticipano le sequenze discoprono, ce ne fosse qualche residuo di dubbio, l’intento di costruire un ‘film epico’, nel senso attribuito all’epica moderna da Bertolt Brecht e Walter Benjamin: un’opera in cui la drammaticità e l’immedesimazione lasciano il campo all’osservazione e alla riflessione tese non già all’aspettativa passiva per cui ci si chieda cosa succederà nel film, ma al come venga sviluppato il tema, alle modalità di raccontare ed interpretare le tematiche sociali.
Non trattandosi né di un dramma teatrale, né di un’opera letteraria, Godard mette a fuoco il carattere interpretativo di Anna Karina, evidenziando lo iato tra l’eroina e l’attrice: Karina è e deve risultare un’attrice sottoposta a difficoltà espressive, per mettere a nudo, insieme al linguaggio filmico di Godard, il carattere fittizio e criticamente ponderato dell’argomento trattato.
Di qui la qualità di screen test di moltissime inquadrature. Se all’inizio Karina è ripresa in primo piano mentre recita di spalle, la morte di Nana è resa in un campo medio nel quale la sua sagoma è raffigurata nuovamente nella sua identità di corpo individualmente anonimo: una donna come tante di cui questo mondo è pieno.
Con Questa è la mia vita (che nell’originale suona giustamente «Questa è la sua vita»), Godard ha firmato un capolavoro che mette alla berlina la spettacolarità dei miti borghesi e vi sostituisce uno specchio documentaristico, rivolto soprattutto alla borghesia e alle ipocrisie di cui essa si nutre volentieri quando si immedesima per passatempo nelle emozioni di personaggi sventurati, senza pensare che tanti sconosciuti vivono tali condizioni nell’indifferenza collettiva. Perché un’emozione resti a lungo, bisogna unire la mente al cuore.
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[pubblicato in: Notizie in… Controluce, n. XX/9, settembre 2011, p. 21.]
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