26 agosto 2009

Lezioni di vita in contatto secondo Almodóvar: "Tutto su mia madre"



Tutto su mia madre (1999) di Pedro Almodóvar è un film drammatico. In qualche misura è un film dedicato alle mamme. E si tratta di un ottimo film. A parte queste considerazioni esteriori, il film è crudo, anche sfigato, nella misura in cui su due possibilità, una d’esito positivo e l’altra d’esito negativo, ai personaggi capita sempre il peggio.

Il meccanismo ha bisogno di una tecnica che sorregga la trama che, messa a nudo, si rivelerebbe tediosa. La fotografia e la ritmica, l’esito felice di alcune caratterizzazioni dei personaggi permettono di mantenere nello spettatore un livello d’attenzione al film senza il quale sarebbe un vero fallimento.


Da questo punto di vista, il film è arditamente ben riuscito: ha una minore ampiezza visiva di Short Cuts (America Oggi) di Robert Altman, ma una migliore linearità e fruibilità. Entrambi raccontano i luoghi di tangenza degli uomini della società frammentata e anestetizzata dai propri circuiti, dalle nicchie e dai tragitti di formica che ci stanno sopraffacendo nella nostra stupidità.


Lo sgretolamento dei legami familiari e le atipiche relazioni amorose costituiscono il tema portante di un’ambientazione sociale che ben rappresenta, se si vuole in sintesi, quello che pare avvenire nelle nostre famiglie. Contro questo sgretolamento, ci dice Almodóvar, c’è poco da ricorrere alla tradizione: occorre rileggere uno scenario mutato.

Pure, negli uomini, ci sono gli stessi moti d’animo, gli stessi attaccamenti e gli stessi amori della famiglia tradizionale. Egli, come autore, non rappresenta una farsa, ma una situazione atipica che si dimostra in tutti i suoi tratti essenzialmente realistica, e il cui messaggio di fondo è: «C’è poco da scherzare.»


Il titolo del film è tratto da All About Eve, un classico della cinematografia americana (in italiano: Eva contro Eva). Da quel «Tutto su Eva» dell’originale il figlio di Manuela, la protagonista, decide di scrivere Tutto su mia madre.

Egli non ha mai conosciuto il padre e vorrebbe riempire quella parte della vicenda materna che gli è oscura con ciò che lo riguarda: il padre. Ma viene investito da una macchina e muore clinicamente poco prima di poterlo sapere. Manuela (Cecilia Roth), infermiera in un reparto di terapia intensiva, dona gli organi del figlio.


A questo punto tutto sembra proseguire in avanti, come nell’automatismo di chi è sopraffatto dallo scorrere della vita e dai suoi nuovi scenari (per esempio, la donazione d’organi). Manuela quindi scopre chi è il beneficiario degli organi e lo segue. Ma è una mossa falsa, capace di accentuarle lo stato di sofferenza in cui versa.


La vita forse occorre che vada a ritroso per essere più vicini a se stessi. Manuela abbandona l’allontanamento dal passato che aveva perseguito per diciassette anni fuggendo con in grembo il figlio all’insaputa del vero padre, e va alla ricerca di quest’ultimo. La protagonista dà un taglio al proprio lavoro di infermiera e alla città in cui vive, ritrovando in sé e non nella quotidianità del lavoro e dei suoi meccanismi lo stimolo per portare avanti la propria vita.


Chi è il vero padre di Estefan? Poco a poco scopriremo che è un transessuale di nome Lola, il quale è irreperibile ma che, nel frattempo, ha ingravidato una suora, Rosa (Penélope Cruz), e le ha attaccato l’Aids. Il ciclo della maternità continua, ma in modo intrecciato ora, fra simulazioni e dissimulazioni che l’ambiente della prostituzione transessuale rende connaturato per cultura.


Abbiamo ora una suora ingravidata da un transessuale che ha contratto l’Aids. La vita è davvero strana a volte, e la situazione realistica. Almodóvar non fa leva su questa atipicità. La tratta invece come se si trattasse di una vicenda qualsiasi, con una ritmica appena più serrata di certa Nouvelle Vague.

Il pregio sta nella concisione delle scene del film, che puntano meno l’attenzione su certi ambienti tipici dei suoi primi lavori o, cercando nella cinematografia nostrana più garbata, nel Monicelli di Caro Michele o Speriamo che sia femmina, in cui si indulge a una più forte caratterizzazione delle diversità d’estrazione sociale dei personaggi.


Qui, invece, è come se i personaggi si incontrassero senza stridore, là dove l’umano li accomuna, dove il femminile e l’amore li rende comprensivi gli uni degli altri.

Ed è questo contrappasso d’amore nella tragedia, di perdita nel dolore che tiene sempre più uniti personaggi la cui biografia è tutt’altro che simile: l’attrice di successo lesbica e attempata, l’attricetta viziata, tossicodipendente e lesbica, la transessuale ex prostituta, l’infermiera ex madre, la suora che aiuta prostitute e tossicodipendenti e il cui padre malato non sa riconoscerla, la madre borghese che scopre che il proprio nipote è stato concepito da un transessuale, il transessuale che si scopre padre di un figlio e gli viene rivelato d’essere stato padre di un altro figlio ormai morto.


Vita e morte si incontrano in un cimitero. Lola, il padre di due Estefan (uno morto e l’altro appena nato), è malato di Aids e sa il suo destino.

A questo si aggiunga un altro intreccio della simulazione: il teatro. Un teatro, per giunta, sulla donna e sulla maternità, qual è Un tram che si chiama desiderio di Tennessee Williams. Quasi che la vita reale sia più fantasiosa dell’arte, le attrici dissimulano e simulano molto peggio delle transessuali, e spesso si fanno irretire e divertire dalle loro bugie.


La teatralità e il travestitismo transessuale si coniugano con un’attenzione, una sensibilità e un affetto verso le amicizie al punto da diventare una lezione di vita per chi ha ormai sgretolato in sé il senso di disponibilità e solidarietà verso gli altri, anche i propri familiari.


Il film è ricco di citazioni da film e drammi teatrali, in una maniera che appare agevole a chi non ne conosca le fonti, ma discretamente suggestiva di riflessioni ulteriori per chi conosca gli originali. Rifuggendo dalle situazioni smaccatamente grottesche, Pedro Almodóvar ci regala un film dolorosissimo, in cui, come nella vita reale, si indulge a ilarità e scherzi, senza perdere il filo conduttore della vicenda.


Con brevità scenica riesce a evidenziare le contraddizioni che spesso ci inducono a credere che una persona sia viva solo perché è presente. Il padre di suor Rosa che non la riconosce e le chiede quanti anni ha e quanto è alta in poche inquadrature dà la dimensione di come spesso la perdita riguarda anche i vivi.

Un ottimo film per meditare su noi stessi e i nostri rapporti con gli altri, nella misura in cui sono diventati sempre più distaccati, quasi evanescenti, presi come siamo dai nostri automatismi quotidiani, dalle nostre urgenze, dai nostri interessi, di cui non sappiamo più neppure l’origine.



[pubblicato su Notizie in... Controluce, n. XVIII/10, ottobre 1999, p. 21.]

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