16 giugno 2009

"Grazie per la cioccolata": nelle sale l'ultimo film di Claude Chabrol

La storia raccontata da Claude Chabrol nel suo ultimo film, Grazie per la cioccolata (Merci Pour le Chocolat), affronta il tema della procreazione e degli scenari mentali che gli individui si fanno a partire dalla propria idea di genitore e figlio.

Mika Muller, magistralmente interpretata da Isabelle Huppert, è un’industriale della cioccolata che ha appena perso il padre, fondatore dell’azienda. Otto anni prima aveva ucciso la sua migliore amica, Lisbeth, e ora ne risposa il marito, André Polonski (Jacques Dutronc), un celebre pianista.

Chabrol, in sintonia con la sua secchezza espositiva, non perde tempo nel farci entrare nel meccanismo delle relazioni fra i personaggi, tenendoci volutamente un po’ fuori, senza coinvolgimento, come se partecipassimo da estranei a una festa di matrimonio, obbligandoci ad apprendere dai discorsi degli invitati chi siano gli sposi. Ogni battuta ha una sua finalità, senza orpelli. Una sola battuta ci dice che Mika e André sono famosi al punto da interessare la stampa (André chiama per nome la giornalista); si erano già sposati vent’anni prima; lui ha un figlio diciottenne, Guillaume (Rodolphe Pauly), avuto da Lisbeth.

Già qui emerge la figura della moglie morta: una donna attiva, creativa, frizzante, piena di energia, amata da tutti. Mika la venera e ne tiene vivo il ricordo. Per tutti, Lisbeth è morta in seguito a uno strano incidente stradale: andata a comprare il sonnifero di cui André ha sempre bisogno, si era addormentata alla guida dell’auto sulla panoramica; l’autopsia aveva riscontrato nel suo corpo tracce di alcool e barbiturici, nonostante lei non ne facesse uso.

Ogni sera Mika prepara la sua cioccolata a Guillaume, un ragazzo inebetito, dai riflessi lenti, irrisoluto, depresso. Una famiglia famosa, ricca, stimata e piuttosto deprimente: Mika sembra una mammina; André ha sempre la testa sul pianoforte a cercare di raffinare i passaggi dei grandi compositori; Guillaume armeggia giochini elettronici, senza una prospettiva: in nessun senso.

Ma Jeanne Pollet (Anna Mouglalis) è una ragazza piena di vitalità. Anche lei ha diciott’anni ed è fidanzata con il figlio di un’amica della madre, che lo ha anche assunto nella sua clinica di medicina legale. Di ritorno da una partita a tennis, Jeanne e il ragazzo raggiungono le madri che parlano del pianista, dopo aver letto sul giornale del suo matrimonio. Lo chiamano l’uomo della clinica. Jeanne si incuriosisce al punto che la madre del fidanzato le rivela che André Polonski l’aveva scambiata per la figlia il giorno in cui era nata. Poi il padre di Jeanne aveva riparato all’errore commesso dall’infermiera nel mostrare il neonato, e del resto la moglie del pianista aveva avuto un maschietto anziché una femminuccia: tutto a posto quindi, secondo la madre.

Jeanne resta male del fatto che la madre non gliel’abbia mai detto; la madre resta male che l’amica lo abbia fatto, nonostante dica che si trattava di un episodio di tanti anni prima, privo di importanza. Per Jeanne, che studia pianoforte ed è appassionata di Polonski, la rivelazione occupa tutti i suoi pensieri. Fa visita a casa di André Polonski e mette in crisi le due famiglie: si presenta come sua figlia; scopre che Mika somministra del sonnifero nel cioccolato di Guillaume; accende la curiosità e l’entusiasmo assopito di André che la trova simile a Lisbeth; incuriosisce Mika che pensa la stessa cosa; mette in apprensione Guillaume.

Non ci troviamo in un film di Pedro Almodóvar, ma di Claude Chabrol, e non ci troviamo in Francia ma in Svizzera, paese neutrale, sociale, finanziario e industriale, in cui tutto è regolato e pacifico, in cui i ritmi sono scanditi, più che con l’orologio, con il contagocce, in cui la blandizie borghese acquieta tutto. I rituali sociali sono sinteticamente descritti dal regista, approfittando della giusta ambientazione per far svolgere i dialoghi: un matrimonio senza passione; una mostra di fotografia commemorativa di Lisbeth sovvenzionata da Mika; l’attesa delle due madri in carriera che aspettano i figli a un bar. Vita domestica più monotona che tranquilla, con colleghi che vengono a cena; giornate lavorative in ufficio o in clinica. Né l’arte, né la natura, né la passione amorosa scuotono il torpore dei personaggi. La preoccupazione viene assorbita, piuttosto che sfogata.

Così, anziché scenate e accese proteste, l’ospite inattesa viene ricevuta con cordialità, mentre tutto un meccanismo della perdita viene messo in moto: Mika vede la possibilità di perdere la famiglia; Guillaume il padre; la madre di Jeanne (Brigitte Catillon) la propria figlia. Chi non si vede perdere niente sono André, Jeanne e il suo fidanzato, che ha un ruolo marginale solo in apparenza, essendo fondamentale nell’economia espressiva di Chabrol: come dimostra la sua regia sempre essenziale, per cui nessun dettaglio è messo lì per caso, non si indulge in alcun modo all’erotismo. Non è una questione d’amore sensuale quello messo in scena, ma un’altra questione, e per questo Chabrol, nella sequenza in cui Jeanne è a letto con il fidanzato e gira per la stanza, non esibisce il corpo dell’attrice, né inserisce battute o sguardi di gelosia da parte del ragazzo.

La macchina da presa che si introduce nelle camere da letto già ci avverte che il desiderio dei personaggi e il loro dramma non è in nessun modo amoroso: André Polonski che mette il braccio sulla spalla della ragazza può anche sentire ravvivarsi il passato del perduto amore per Lisbeth, ma tratta e guarda Jeanne essenzialmente come la figlia che avrebbe voluto avere e che non ha mai avuto. Nonostante l’evidente sensualità di Jeanne, Mika non la vede come antagonista erotica (Chabrol lo segnale inquadrando Mika di spalle che tesse senza mai voltarsi verso Jeanne e André, poiché non è interessata alla relazione dei corpi). Nel rapporto matrimoniale fra Mika e André il sesso non ha alcuna importanza.

Cos’è allora il sesso, così fondamentale nel film? Jeanne va a letto con il fidanzato, che l’aiuta quando le occorre: non c’è alcuna crisi fra i due dopo la visita a Polonski (le manca di più perché lei è più impegnata, ma i due se la intendono bene). Non c’è alcuna crisi fra Mika e André dopo la visita di Jeanne. Guillaume non è interessato sessualmente alla sua bella coetanea. La madre di Jeanne non ha storie passionali (con l’amica non parlano di uomini, ma dei figli). In nulla il sesso è avvertito come passione dai personaggi in crisi. In apparenza è invece fondamentale la procreazione, l’essere padre, madre, figlio o figlia di uno anziché di un altro personaggio.

Di fatto, Mika va a conoscere la signora Pollet per sapere se Jeanne può essere la figlia del marito. L’appuntamento è annunciato dal nervosismo della madre di Jeanne. Già qui si sarebbe portati a credere che Mika voglia saperlo per eliminarla, ma Chabrol non dice questo. Il regista francese sta descrivendo la messa in crisi della famiglia: il dramma non è solo quello dell’assassina, che egli predilige come personaggio principale dei suoi lungometraggi, ma della madre di Jeanne e del figlio di André. E se la vita non è fatta solo di genitori genetici, non è fatta neppure solo di genitori adottivi.

Rispetto alla questione dell’esser figli genetici o adottivi, di derivazione naturale o di derivazione ambientale, Chabrol indica un terzo modo: essere figli e genitori elettivi, scegliersi la famiglia e le persone con cui condividere qualcosa che sorge da dentro, che si è fatto cultura individuale attraverso dei percorsi che i figli non condividono con i genitori. Di fronte alla possibilità di perdere la figlia, la madre di Jeanne arriverà a farle perdere il padre: le dichiarerà che neppure il padre che aveva avuto era il suo vero padre, ma che la ragazza è stata concepita con il seme di un donatore anonimo. La madre esperta di chimica che dice a Mika di non aver mai avuto la curiosità di verificare che la figlia fosse sua, di fronte alla figura di un nuovo possibile padre cancella totalmente la possibilità di verificare se il suo sangue coincida con quello di un padre che non si saprà chi sia stato.

Inventare un padre in questo modo, è togliere la possibilità di ogni verifica, ma anzitutto mettere da parte l’ipotesi che il suo sangue non coincida con quello del padre morto, poiché se lui non fosse il padre, lei non sarebbe la madre. Non comprende però che Jeanne non cerca un papà, ma una figura che è già in linea con la sua passione per la musica. Ed è questa vitalità che più di ogni altra cosa preoccupa Mika Muller.

L’assassina fa di tutto perché Jeanne le stia dentro casa e all’interno della famiglia. Il sonnifero che amministra di nascosto a Guillaume, mettendoglielo nella cioccolata, non siamo autorizzati, fino a questo punto, a ritenerlo un tentativo di omicidio, nonostante sia evidentemente nocivo al ragazzo. Di fatto, non si avverte alcun movente: il fatto che sia ormai diciottenne non è neppure un movente, visto il suo completo assoggettamento a Mika: la conosce da sempre e non la considera una «matrigna», ma piuttosto una mamma d’adozione. Così, Guillaume è inebetito dai sonniferi che non sa di ingerire, mentre André non può farne a meno.

Mika sta tenendo tutti in un torpore, nel timore di perdere qualcosa che poco a poco emergerà nella storia, ma che i suoi comportamenti già ci anticipano, prima che sia lei a rivelarlo a Jeanne: l’imprenditrice non è figlia dei suoi genitori, fu presa da un orfanotrofio. Ragazza senza qualità, non si sentiva amata dalla madre, non si sentiva accettata e amata nella famiglia. Morto il padre, si risposa.

La donna che seguiamo nel film, e di cui si avverte sempre una cattiveria di fondo, larvale, un’insidia mortale, viene fatta emergere poco a poco nelle sue ragioni. Chabrol la scruta con la sua macchina da presa, la cerca continuamente per farci osservare le sue reazioni a tutto. Se da un lato è una donna pericolosa, un’assassina, dall’altro il pericolo mortale viene via via circoscritto a un ambiente ristretto: la famiglia. L’assassina è, ancora una volta, la vittima della propria condizione interiore, del sentimento della propria mediocrità, in questo caso agganciato al proprio passato familiare.

Secondo il suo modo di procedere, il sonnifero può avere due effetti diversi su persone caratterialmente diverse: a seconda che si sia strettamente legati alla casa, che si accetti la propria lentezza, la propria blandizie; oppure che si cerchino cose eccezionali, svincolate dalla casa, come andare a cento all’ora sulla panoramica (l’immagine del lago che pare un mare, sembra strettamente in relazione con il doppio senso della fuga, del viaggio, dell’avventura, e quello della chiusura, della quiete, del radicamento ambientale: Lisbeth muore non in un qualsiasi punto, ma sulla panoramica a strapiombo sul lago). Tutto deve restare così com’è, l’agitazione deve rappacificarsi, poiché Mika soffre l’inquietudine della perdita affettiva, è buona con tutti, accetta tutti, ed è completamente irrigidita a ogni passione, come confesserà lei stessa al marito.

La messa in scena dell’ordine è resa per tutto il film attraverso una serie di coreografie degli attori, che si dispongono nell’inquadratura e si muovono secondo disposizioni prestabilite: per es., in una sequenza di nessun rilievo narrativo, Mika, la signora Pollet e la segretaria sono disposte su un solo piano che copre tutta l’inquadratura, e appena una si muove da destra a sinistra lo spazio vuoto viene momentaneamente riempito dal passaggio di un infermiere con il vassoio).

Anche il gioco di spalle e specchi è più complicato di quanto pensi Jeanne: lei crede di aver sorpreso, attraverso lo specchio, Mika versare apposta la cioccolata per terra, ma come poteva sapere Mika che Jeanne le desse le spalle se erano entrambe voltate? Il dare le spalle a Mika, anziché guardarsi le proprie, è un elemento ricorrente del film. Più probabile che, conoscendo la casa, volesse mettere alla ‘prova’ l’abilità di Jeanne, come lei stessa si è espressa con il marito dopo che Jeanne è andata via.

Mika, secondo la sua ottica, non uccide in senso proprio, ma lascia morire. Che Jeanne stia lì dentro casa con il marito, anche con la porta chiusa, non le mette inquietudine. Basta che ci resti. Quello che non le piace sono le iniziative, come il vecchio consigliere d’amministrazione che vuole apportare modifiche nei bilanci dell’azienda proponendo produzioni innovative. La mediocrità che avverte dentro di sé vorrebbe che sia estesa agli altri, che ci sia una pacificazione di tutto, nella blandizie. Quello che desidera è poter dare per ridare: non poter dare una volta soltanto. E quando Jeanne la sostituisce per prendere i sonniferi che Mika non aveva acquistato, l’evento è, appunto, una sostituzione, un rimpiazzare, un annullare l’unicità del proprio ruolo familiare, un cominciare a scalzare: poco prima le aveva lasciato lavare i piatti, occupazione però più tipica della domestica.

E il dramma si compie in poco tempo, l’iniziativa tradisce Jeanne, così sicura di sé: la ragazza, ripiegando sul caffè per evitare la cioccolata, non ha evitato di ingerire il sonnifero e si va a schiantare ad alta velocità contro un muro insieme a Guillaume, che Mika aveva cercato di risparmiare ferendogli un piede con l’acqua bollente.
Ad André, che pare svegliarsi dal torpore solo quando gli manca il sonnifero, la sera in cui Jeanne è uscita in auto richiama alla mente quell’altra sera in cui morì Lisbeth e in cui Mika, come in questa, lavava le tazzine sporche. Finalmente si agita, chiama la madre di Jeanne perché telefoni alla figlia sul cellulare, ma è troppo tardi. L’auto si è già schiantata. Mika gli confessa il primo omicidio, e André è dispiaciuto, ma non la biasima. Poco dopo, arriverà la telefonata che lo avverte che i ragazzi e la madre sono in questura, completamente illesi.

Ma André torna a suonare: ora di nuovo quieto, come se nulla fosse successo. A Chabrol qui non interessa chiudere, come in altri film, con l’arresto dell’omicida. Gli elementi oggettivi, per incastrarla, hanno evidentemente bisogno della testimonianza di Guillaume e André, che non pare neppure tenerci: entrambi, dopotutto, hanno bisogno di Mika. Le tazzine sono lavate, la situazione, in questi termini, resta piuttosto vaga per gli inquirenti. Chabrol, così puntuale, lascia un dubbio, poiché è interessato a raccontarci altro.

Mai come in questo film Chabrol racconta la pietà per l’assassina. Lo fa in una maniera del tutto particolare, con la sequenza più bella di tutto il film, un lunghissimo silenzioso pianto in cui Isabelle Huppert dimostra le sue straordinarie doti interpretative. Questa scena, senza tagli e montaggio, ci dice che l’omicida è abbandonata a se stessa e nessuno si cura di lei: è relegata, nella chiusura dei titoli di coda, all’essere fuori della storia che ci interessa, e che quindi allo spettatore non interesserebbe granché, ma interessa al regista.

Forse Mika sentiva la propria infelicità anche nel matrimonio, era stanca e si dava un tempo perché tutto finisse: qui il dubbio se l’interruzione della somministrazione del sonnifero al figliastro fosse l’interruzione di omicidio o meno; di qui l’idea che essere vista da Jeanne mentre versava apposta la cioccolata per terra fosse un’ennesima ‘prova’ – come lei stessa diceva – dell’abilità della ragazza e della possibilità che fosse la figlia dell’amica. Ci sono persone, come Mika, che non desiderano altro che di poter rinascere, incapaci come sono di essere felici uscendo dai meccanismi caratteriali formatisi nell’infanzia e nell’adolescenza.

Infatti, la descrizione finale del dolore dell’assassina assume quattro forme: da un lato dello schermo scendono i titoli di coda sulla storia finita, dall’altro l’Huppert continua a recitare; Mika depone la sciarpa che come Penelope ha finito ora di tessere; piange un pianto delicato, lento, con lunghi fiotti di lacrime che le venano a intermittenza il viso; si accovaccia sul divano e resta lì, fino a chiudersi completamente come un feto (emblema massimo dell’innocenza).

Mika non desiderava la morte di Lisbeth, la «donna vera» (come dice a Jeanne), da lei ammirata e uccisa. Lei stessa ne ha subito la perdita e continua incessantemente a pensarla. E si sente cattiva, tremendamente cattiva. E non sa che farci. Lei stessa vorrebbe rinascere, in un altro grembo, in un’altra famiglia. Le resta oscuro sapere cosa significhi essere una figlia elettiva.

[ puoi scaricare e leggere il racconto nel formato editoriale originale cliccando -> scarica PDF ] 

[pubblicato su Notizie in... Controluce, n. IX/11, novembre 2000, pp. 14-16.]


Trailer del film (in francese):

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