16 agosto 2009

Lasse Hallström: "Chocolat"

A Lansquenet, un villaggio del Nord della Francia, alla fine degli anni cinquanta, la tranquillité è un valore che accomuna gli abitanti. Custode del valore è il sindaco, ultimo discendente di una nobiltà che, per generazioni, ha fatto rispettare leggi e costumi. Garante metafisico della giustezza del valore è il Cristo, che accomuna tutti nel luogo ideale: la chiesa.

Che cosa insegna il buon Dio? Di questo si sa poco. I valori cristiani e la sua precettistica cambiano di luogo in luogo, di tempo in tempo. Per secoli si sono disputate guerre, vergati scritti, elevati alla gloria della santità e bruciati libri e teologi. Ma per l’ultimo conte di Reynaud, nonché sindaco di Lansquenet (Alfred Molina), la dottrina ha una sua precettistica, la Parola una sua interpretazione inequivocabile.

Lungi ormai dall’essere il feudatario che faccia la legge e la faccia anche rispettare, il conte, a differenza dei suoi antenati, deve limitarsi a fare applicare i costumi e la legge ultraterrena sulla terra in una maniera antiquata, ma certo consona alla nuova epoca democratica: anche al giovane prete appassionato della musica rock. Siamo infatti alla fine degli anni cinquanta, non nel Medioevo, e il sindaco lo sa: la legge è quella della Repubblica Francese e la religione non è poi così in voga, se è vero che sua moglie se ne è andata a Venezia e non sembra abbia intenzione di tornare alla religiosa tranquillità di Lansquenet.

Ci sono altri modi di vivere la vita, sempre nel rispetto della tradizione. Così giungono in paese Vianne (Juliette Binoche) e la figlioletta Anouk (Victoire Thivisol). La loro storia è molto diversa: sono delle girovaghe, pare che non si fermino per molto in un posto. La loro missione è quella di far conoscere i poteri catartici della cioccolata. Vianne prende in affitto un locale e ne fa una cioccolateria.

Siamo nella Quaresima, periodo dei digiuni, in cui i dolci sono vietati, se non dalla legge francese, almeno da quella divina. Così la pensa il sindaco, un uomo probo che, nonostante le sofferenze del digiuno, è il primo a dare il buon esempio. Dopo aver fatto visita alla donna e aver cercato di dissuaderla dall’aprire una simile attività in paese, deve arrendersi all’evidenza che Vianne fa di testa sua e mina la tranquillità del villaggio, portando al peccato della gola i suoi abitanti.

Si dà il caso che gli abitanti, con tutta la loro religiosità, non siano felici. Chi per un verso, chi per l’altro, anziché vivere la gioia della vita in armonia con gli altri, rispettano semplicemente la tranquillità e soffrono per lo più in religioso silenzio. L’innocuo alimento che ha per nome cioccolata diventa, nella generosità entusiasta di Vianne, un elemento effettivamente pericoloso per lo status quo locale. Comincia così l’aspra lotta fra il sindaco e Vianne, una lotta fatta di due principi antitetici: repressione e libero sfogo agli impulsi della piacevolezza.

Chocolat (2000) del regista svedese Lasse Hallström è un film che gioca tutto su questa opposizione, con una voce narrante che ci avverte fin dall’inizio che si tratta di una favola, aiutata, in questo, da una serie di voli radenti della macchina da presa sui personaggi, dall’alto in basso; di campi e controcampi rapidi ma molto puliti; di alterazioni temporali del montaggio e di alcune inquadrature all’aperto che trasformano le case in luoghi antichi, che subissano suggestivamente i personaggi.

Tratta dall’omonimo romanzo della scrittrice inglese Joanne Harris, la favola proposta da Hallström – il regista di La mia vita a quattro zampe (1985) e Le regole della casa del Cidro (2000) – anziché avere la tipica ambientazione ottocentesca, ne propone una del secondo dopoguerra, e in qualche misura ci dice che siamo ormai giunti, nel nuovo millennio, in un’era idealmente diversa dal secolo scorso. Molti di noi, infatti, negli anni cinquanta non erano nati o erano dei bambini; inoltre l’idea stessa di villaggio si è andata sgretolando. Il villaggio è, se si vuole, l’ultima roccaforte di un’era superata, e, visto secondo un’angolazione storicamente più ampia, di un’Europa che cambia, di un mondo che dopo secoli di colonialismo si trova a doversi misurare con il proprio presente ‘invaso’.

La favola evita di raccontare la storia del Bene contro il Male, ma si incentra piuttosto sul tema dell’invasore e dell’invaso, attraverso un meccanismo di presentazione della protagonista e dell’antagonista che ne riveli le motivazioni, scongiurando una differenziazione fra buoni e cattivi. Poco a poco il film scava nei drammi locali, che, a ben vedere, sono fatti di piccole cose, ingigantite dalla mentalità ristretta (fatta di punti di vista ristretti) dei paesani. Le unità di misura dei valori sono il benessere e il disagio, l’allegria e la tristezza.

L’idea di fondo della favola appare particolarmente felice. In genere la tipica lotta fra il Bene e il Male, specialmente quando ci sia di mezzo la religione, viene proposta attraverso storie d’adulterio o storie d’amore contrastato. Ma le storie d’adulterio e d’amore, per quanto candidamente raccontate, finiscono per coinvolgere, secondo la prassi narrativa, soltanto una frangia di persone ristrette (generalmente giovani), relegando gli altri personaggi alla funzione più o meno larvale di figure marginali.

L’impiego un po’ naïf della cioccolata è, invece, un simpatico espediente per far sì che tutti i personaggi del film, i bambini come gli anziani, siano combattuti fra la precettistica del sindaco e le attrattive proposte dalla donna. Nel film assistiamo così all’intero coinvolgimento dei personaggi e al conseguente stravolgimento delle loro vite.

Si nota, comunque, già nei due antagonisti del film, l’opposizione fra due figure classiche dello scontro: l’uomo e la donna; il prete e la strega. La difficoltà, qui, è che, essendo negli anni cinquanta, diventa impraticabile per il sindaco far passare Vianne per una strega, e la fa così passare per una donna non per bene, evidenziando ai paesani che ha una figlia senza avere avuto un marito. Di contro, c’è sempre qualcuno che gli chiede quando tornerà la moglie dal viaggio a Venezia. Un altro elemento di spostamento, rispetto alla situazione classica, è che il nobile debba rimpiazzare la figura del prete, scrivendogli i sermoni e suggerendogli il da farsi.

Se i tempi sono cambiati per il sindaco, lo sono però anche per la donna: sua figlia non ha desiderio di fare la girovaga secondo la tradizione che Vianne ha ereditato dalla madre, sente invece il bisogno di farsi dei compagni di gioco in un posto e mantenerli, il che provoca un conflitto fra madre e figlia, che alla sensibilità di Vianne, così brava nel capire le esigenze degli altri, non può sfuggire, al punto che avverte una sorta di turbamento riguardo alle ricadute del proprio credo girovago sulla bambina.

Il conflitto fra Vianne e il sindaco è anche un conflitto classico fra il cristianesimo e le culture colonizzate. Qui l’ecumene della buona novella viene ribaltata: l’America del Sud, attraverso la viandante, esporta la propria ricetta afrodisiaca nel mondo, mentre l’europeo (il sindaco) è immobile nel proprio luogo, nella vita tranquilla della tranquillité. È un fenomeno postcoloniale tipico del Novecento, con gli artisti e letterati occidentali che hanno attinto dalle più varie culture, dal Giappone alla Cina, dall’India al Nord Africa, all’America del Sud (una delle zone, questa, di maggiore immigrazione dall’Europa).

La cultura laica, dopo i secoli delle invasioni e dei riti cristiani imposti, anche in forme cruente, ai colonizzati, segue ora una tendenza opposta, di maggiore apertura all’esotico, dopo l’inaridimento culturale che l’ortodossia inevitabilmente produce nell’autodefinizione di sé quale portatrice di una conoscenza del mondo interiore che, di fatto, è ancora tutta da conseguire. Nel film si assiste a questo fenomeno, e ne emerge un cristianesimo incerto, in apparente difficoltà: che, però, fagocita tutto, anche le nuove istanze (nel film: la cioccolata).

Ogni favola racconta un mondo che non c’è, che non c’è mai stato (o semplicemente che non c’è più). Nel film, la favola porta con sé un trascinamento della nostalgia, di un qualcosa che, perché è passato, sembri perfetto. Chocolat trascina con semplicità la favola nella realtà, l’ideale (quello sacro e quello profano) in uno stato delle cose che ne ostacoli la prosecuzione, fino a negarla. L’ideale si sgretola sotto i colpi delle necessità. La lotta intorno alla cioccolata è raccontata in modo poetico ed esilarante, con un tono disincantato e affettuoso che assorbe bene, fino a mitigarle, le scene più drammatiche del film.

La metafisica della cioccolata diventa anche il pretesto per parlare del peccato e dell’anima degli animali. In fondo, ciò che è messo in evidenza è il controsenso delle logiche in via di dissoluzione, che non reggono proprio più, come è quella del sindaco o del giovane prete; figura, quest’ultima, che predica senza sapere cosa stia predicando, depositario di un pensiero che non ha più una filosofia: e non è un caso se la sua predica finale è la conseguenza di un mutamento d’opinione da parte del pensatore locale, il sindaco.

Ad accrescere la gamma delle differenze c’è l’innesto dei nomadi e l’opposizione, nei limiti della legalità, al loro stanziamento in paese: qui si avverte che la tradizione nomade di Vianne e quella di Roux (Johnny Depp) non coincidono, e si introduce un motivo di attrazione e di sfida amorosa fra i due. La lotta spietata del sindaco contro i nomadi si traduce in una serie di volantini razzisti sparsi in paese, che non hanno intenzione di produrre una violenza fisica, ma un allontanamento degli ‘invasori’ stanziatisi sulle rive del fiume con le loro barche.

Qui viene rappresentato anche il rapporto fra un’idea originaria di opposizione e un’idea rielaborata: dall’opposizione non violenta del sindaco all’opposizione violenta dei suoi sostenitori. L’innesto del nomadismo serve anche per meglio caratterizzare la protagonista, che si trova ora a vivere con due tipi di collettività (quella paesana e quella nomade) che le sono entrambe estranee.

Cinematograficamente, il film è ben costruito sotto tutti gli aspetti fondamentali: casting, interpretazione, fotografia, costumi, scenografia, musica e montaggio. La somiglianza fra la madre e la figlia è particolarmente felice, mentre la costruzione del personaggio interpretato da Johnny Depp, che aveva già lavorato con Hallström in Buon compleanno Mr. Grape (1994), è distante da tutti gli altri personaggi: vi è una sorta di distacco di Roux ottenuto attraverso l’innesto di un tipo estratto da altri generi cinematografici e attraverso l’eccessiva tenuta in campo e a fuoco dell’attore, anche quando è in secondo piano, al punto da apparire, rispetto agli altri, un personaggio ‘esibito’. Inoltre, il personaggio, con le sue pose da star e la sua figura pulitina, per nulla trasandata, senza un macchia, è reso improbabile, eterotopico, in contrasto anche con il fatto di avere delle doti manuali. Questa stonatura appare la scelta peggiore della regia, piuttosto che un limite dell’attore di Dead Man, che sa inscenare alcune delle sequenze drammatiche più significative di Chocolat.

Alcune motivazioni dei personaggi non giustificate nel film ne rendono un po’ affrettato il finale, specialmente riguardo ai personaggi interpretati da Carrie-Anne Moss (brava qui nel calarsi nei panni della bella mamma antipaticamente bacchettona e amorevolmente severa, dopo le avventurose scorribande futuristiche di Matrix: regge il ruolo alla perfezione), e da Johnny Depp, freak alla Dolce e Gabbana dall’inizio alla fine.

Il film di Hallström mi pare, nel complesso, molto ben riuscito: sa essere comico e drammatico, con tante punte di poesia, e ben contenuto nella dimensione della favola, senza ricorrere a trovate ad effetto che ne sfilaccino il filo di refe che attraversa la storia. I moventi degli altri personaggi sono ottimamente rappresentati.

Può forse deludere la mancanza di tensione, ma il film è sul genere delle grandi storie dei buoni sentimenti degli anni cinquanta, senza rinunciare a toccare tematiche attuali: dall’alterità al razzismo, dalla fede alla passione, fra incanto, tradizione e il sopraggiungere apoetico della realtà storica che ospita l’avventura dei personaggi.

[pubblicato su Notizie in... Controluce, n. X/4, aprile 2001, p. 21.]



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