tag:blogger.com,1999:blog-8448144791058176412024-03-05T09:16:32.560+01:00Cinecarte di Nicola D'UgoScritti sul cinemaNicola d'Ugohttp://www.blogger.com/profile/15504174801531073127noreply@blogger.comBlogger17125tag:blogger.com,1999:blog-844814479105817641.post-51846926321295719962011-09-20T20:52:00.005+02:002012-04-16T03:54:49.510+02:00Jean-Luc Godard: "Questa è la mia vita"<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
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Il film di Jean-Luc Godard <i>Questa è la mia vita</i> (tit. or.: <i>Vivre sa vie</i>, 1962), ha un’ambizione del tutto particolare: raccontare una storia individuale e renderla vera attraverso la messa a nudo del carattere fittizio della narrazione.<br />
<br />
La protagonista Nana, interpretata dalla splendida Anna Karina, è una ragazza che aspira ad affermarsi come attrice e finisce per recitare un ruolo che l’ambiente degradato in cui vive le destina. Nana, a prescindere dalla sua aspirazione, imbocca la via della prostituzione, fino alla sua tragica morte, non dipesa da alcuna colpa sua, ma dal trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato.<br />
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Jean-Luc Godard rifiuta di render la storia di Nana un mito drammatizzato, e rifiuta quindi le tecniche tradizionali attraverso le quali gli spettatori tendono ad immedesimarsi nella protagonista. Nana è anatomizzata dalla macchina da presa, che la riprende di spalle nella sequenza iniziale, per cui di Karina seguiamo il dialogo senza vedere che il retro dei suoi capelli, mentre il suo volto è vagamente riflesso nello specchio della caffetteria.<br />
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O, in altri casi, è lungamente ripresa di profilo o frontalmente, in un rimando a specchio che a lei ci avvicina e da lei ci ritrae. Godard mette in crisi il mito e il piacere perverso d’immedesimarsi in eroine tragiche. Non c’è nulla da scherzare, né si tratta di finzione quando si abbia di fronte una donna e il suo dramma personale.<br />
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Mentre noi seguiamo la storia di Nana, lei si rimpicciolisce rispecchiandosi passivamente nei miti cinematografici, libreschi, fotografici e musicali di cui il film è ricco nella sua certosina essenzialità.<br />
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I continui passaggi dalla soggettiva al ritratto, con l’entrata ed uscita di Anna Karina dall’inquadratura a macchina mobile, servono ad accrescere il carattere d’alterità della protagonista. Così come l’uso del bianco e nero ad alto contrasto ne deprecano l’intento realistico.<br />
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Nana è e deve rimanere una figurina minuta e psicologicamente impermeabile: il suo dischiudersi emozionale è illividito dalla mancanza d’un nesso causale dei suoi accessi emotivi, proposti da Godard essenzialmente a blocchi disgiunti, proprio per impedirci di accostarla affettivamente.<br />
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Insieme a queste tecniche, le didascalie tematiche che anticipano le sequenze discoprono, ce ne fosse qualche residuo di dubbio, l’intento di costruire un ‘film epico’, nel senso attribuito all’epica moderna da Bertolt Brecht e Walter Benjamin: un’opera in cui la drammaticità e l’immedesimazione lasciano il campo all’osservazione e alla riflessione tese non già all’aspettativa passiva per cui ci si chieda <i>cosa</i> succederà nel film, ma al <i>come</i> venga sviluppato il tema, alle modalità di raccontare ed interpretare le tematiche sociali.<br />
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Non trattandosi né di un dramma teatrale, né di un’opera letteraria, Godard mette a fuoco il carattere interpretativo di Anna Karina, evidenziando lo iato tra l’eroina e l’attrice: Karina è e deve risultare un’attrice sottoposta a difficoltà espressive, per mettere a nudo, insieme al linguaggio filmico di Godard, il carattere fittizio e criticamente ponderato dell’argomento trattato.<br />
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Di qui la qualità di <i>screen test</i> di moltissime inquadrature. Se all’inizio Karina è ripresa in primo piano mentre recita di spalle, la morte di Nana è resa in un campo medio nel quale la sua sagoma è raffigurata nuovamente nella sua identità di corpo individualmente anonimo: una donna come tante di cui questo mondo è pieno.<br />
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Con <i>Questa è la mia vita</i> (che nell’originale suona giustamente «Questa è la sua vita»), Godard ha firmato un capolavoro che mette alla berlina la spettacolarità dei miti borghesi e vi sostituisce uno specchio documentaristico, rivolto soprattutto alla borghesia e alle ipocrisie di cui essa si nutre volentieri quando si immedesima per passatempo nelle emozioni di personaggi sventurati, senza pensare che tanti sconosciuti vivono tali condizioni nell’indifferenza collettiva. Perché un’emozione resti a lungo, bisogna unire la mente al cuore.</div>
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<center><iframe align="”justify”" allowfullscreen="" frameborder="0" height="338" src="http://www.youtube.com/embed/zM8LysVo4bs" width="450"></iframe></center>
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[ <i>puoi scaricare e leggere gratuitamente l'intero numero del giornale da cui è tratto l'articolo cliccando</i> -> <a href="http://www.controluce.it/index.php?option=com_phocadownload&view=file&id=215:settembre-2011&Itemid=86">pagina contenente il PDF</a> ] </div>
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<span style="font-size: small;">[pubblicato in: <i>Notizie in… Controluce</i>, n. XX/9, settembre 2011, p. 21.</span><span style="font-size: small;">]</span></div>Nicola d'Ugohttp://www.blogger.com/profile/15504174801531073127noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-844814479105817641.post-42378063018254371592011-02-21T22:10:00.012+01:002012-04-13T21:13:44.035+02:00Michelangelo Antonioni: "Zabriskie Point"<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
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Con <i>Zabriskie Point </i>(1970), Michelangelo Antonioni ha realizzato un film prezioso, che parla con le raffinate inquadrature e un montaggio di rara eloquenza ben piú che con il tradizionale strumento della trama e del dialogo tra i personaggi.<br />
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Per comprendere l'idea che aveva Antonioni della controcultura e dello scontro sociale che imperversava in America al tramonto degli anni Sessanta, occorre rivolgere lo sguardo al minuzioso linguaggio fotografico. In particolare, all'uso di oggetti verticali con cui commenta la situazione settaria che divideva l'America di quegli anni: pali della luce e sportelli d'automobili, palizzate e pareti, edifici, vetrate e tavoli sciorinano una teoria della divisione quotidiana degli spazî che non si limita a registrare gli oggetti di un'epoca che cercava nell'essenzialità del funzionalismo l'ambiente idoneo ai propri bisogni.<br />
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Antonioni, dopo le inquadrature dei cartelloni pubblicitari giustapposte in rapida sequenza, disegna tutta la protasi del film con questi oggetti verticali che dividono lo schermo in piú parti e dietro cui, ad un certo punto, si riparano i poliziotti e i manifestanti.<br />
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Con queste immagini Antonioni ci dice che la società americana non è affatto 'frantumata', ma 'divisa' da un ordine capillare edificato dagli uomini. Lo schermo tagliato a piú sezioni allude al ventaglio di movimenti d'opinione e di correnti ideologiche che si muovevano in parallelo nello stesso ambiente, cosí come i manifestanti che procedono ordinatamente in fila indiana in modo meramente ritualistico e non dialettico.<br />
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Quest'ordine viene iconicamente abbandonato nel momento in cui il protagonista Mark (Mark Frechette), appropriatosi di un velivolo da diporto, esce dalla città, librandosi nello spazio affrancato in cui le abitazioni perdono la loro identità di luoghi d'uso e di scambio e assumono una certa qualità astratta per nulla impositiva.<br />
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Nelle scene a Zabriskie Point, che evocano le comunità dell'amor libero che si isolavano dalla società in luoghi simili, la verticalità che sfaccettava lo schermo lascia il posto a forme tondeggianti dall'aspetto lunare a perdita d'occhio, a mo' di certi quadri di Leonardo: il riferimento iconico piú preciso è all'arte che in quegli anni impegnava il nostro Mario Schifano.<br />
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEghhaVoRDvLxpCN1fNDTPQzv04nw8YpAthFfjQ73ppiD7Jcbs7zWvNi_irpYOoibdEuPy-RtbYnZVWCSJNpIc4g0F6iAfPvfWdxihEdriVVog0HmnUP0fvo9O9pdHQIZYM1p-Dri_Jhd1s/s1600/zabriskie_point6.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEghhaVoRDvLxpCN1fNDTPQzv04nw8YpAthFfjQ73ppiD7Jcbs7zWvNi_irpYOoibdEuPy-RtbYnZVWCSJNpIc4g0F6iAfPvfWdxihEdriVVog0HmnUP0fvo9O9pdHQIZYM1p-Dri_Jhd1s/s1600/zabriskie_point6.jpg" /></a></div>
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Potevano tali due mondi, quello del benessere settario e quello di chi se ne dissociava, vivere in parallelo? Per Antonioni e per molti osservatori dell'epoca la risposta era affatto negativa: molti giovani della controcultura, conosciuto il mondo da cui provenivano, desideravano mutarlo.<br />
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEin9ib71aKF142MkPV-_Cmt5McPytEL33T2EFtUcbU3rIuZE0Y4UempkVhK8ajtwTzTG8DFwlBOPuwkEbNd49pCDdMe6Iu6_h2z9xLZtSTEYXNH05T_NjwAhnCPvjTCDns1BXGBNpC8mhs/s1600/zabriskie_point9.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEin9ib71aKF142MkPV-_Cmt5McPytEL33T2EFtUcbU3rIuZE0Y4UempkVhK8ajtwTzTG8DFwlBOPuwkEbNd49pCDdMe6Iu6_h2z9xLZtSTEYXNH05T_NjwAhnCPvjTCDns1BXGBNpC8mhs/s1600/zabriskie_point9.jpg" /></a></div>
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Di qui la scena del ritorno in aereo di Mark che vuole restituire il velivolo dopo averlo colorato con le tinte e le figure beffarde della controcultura.<br />
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhybj71HgkFBT0Y5H9RPXAQXlURTlcvJwvm4H3lkwXeQNz2B6gYaIVV518xy8fWCu1KUFR3mX2yfA8ndqO9Xo5h873HRnXPZHoM_nBtN-Sn0CuVjba1-lMH288OFPAyej3sTXzCVkajyX8/s1600/zabriskie_point7.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhybj71HgkFBT0Y5H9RPXAQXlURTlcvJwvm4H3lkwXeQNz2B6gYaIVV518xy8fWCu1KUFR3mX2yfA8ndqO9Xo5h873HRnXPZHoM_nBtN-Sn0CuVjba1-lMH288OFPAyej3sTXzCVkajyX8/s1600/zabriskie_point7.jpg" /></a></div>
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Antonioni registra pure l'impreparazione della polizia, che apriva il fuoco contro i giovani disarmati e che, dopo quegli anni violenti, si è vista costretta ad aumentare il proprio livello di istruzione in corsi che si tengono nei college, retaggio didattico del Sessantotto.</div>
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEisnE_BqDTq66-VO_HeMzwItsFeoH58VtlNnA71rS5OVYQk7Qoj3PXtjGwvA0IuHcQFzVEItkw9CX8rPjzXV151HDh_1XmX3VcDVYx0Cgo1OCpT1_Gm0FZOYswqMOfPl2GNMYYlFnPaDAo/s1600/zabriskie_point10.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEisnE_BqDTq66-VO_HeMzwItsFeoH58VtlNnA71rS5OVYQk7Qoj3PXtjGwvA0IuHcQFzVEItkw9CX8rPjzXV151HDh_1XmX3VcDVYx0Cgo1OCpT1_Gm0FZOYswqMOfPl2GNMYYlFnPaDAo/s1600/zabriskie_point10.jpg" /></a></div>
<br />
Dopo l'uccisione di Mark, è l'ordine settario ad invadere lo spazio libero. Zabriskie Point è ora cosparso di torreggianti cactus che impongono la verticalità intorno all'eroina Daria (Daria Halprin), con inquadrature che fanno di Zabriskie Point un cimitero di piante anziché di lapidi infisse nel terreno: il sentimento di ludica libertà di Daria è violato dalla cruda realtà che la imprigiona, riempiendo di simboli inquietanti la natura stessa. Ora la natura non riserba piú uno spazio neopagano e pànico 'fuori del tempo' in cui rivolgersi alla propria spiritualità.<br />
<br />
La villa in cui entra Daria è un misto dei due universi paralleli del film: grossi massi scomposti sostenuti da pilastri verticali e la natura resa artificiale per la comodità dei businessmen che vogliono spartirsi Zabriskie Point.<br />
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjMf_HqN9aLbVv4fD1xBUMEIcymZzwlu8vflcw0J80rwTqrB7xIw6yiWQRQ2ERe4avM7w9PYUktT6ptzMCJYeXOPmwe0Ty1SDSQhqfFPv-Ld7wbobOq9lMSgtPYa7T8X9UR7VdDyGI4sKk/s1600/zabriskie_point13.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjMf_HqN9aLbVv4fD1xBUMEIcymZzwlu8vflcw0J80rwTqrB7xIw6yiWQRQ2ERe4avM7w9PYUktT6ptzMCJYeXOPmwe0Ty1SDSQhqfFPv-Ld7wbobOq9lMSgtPYa7T8X9UR7VdDyGI4sKk/s1600/zabriskie_point13.jpg" /></a></div>
<br />
Daria abbandona la casa e nel dolore per la perdita di Mark immagina la celebre scena dell'esplosione della villa, ripetuta tante volte da angolature diverse. Il suo vestito, inumidito dall'equorea cascatella della villa pseudonaturale, si divide a metà in due distinte tonalità, ad indicare il contrasto intimo del personaggio, spezzato in due entità che non posson piú esser rimarginate.</div>
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È singolare e del tutto conforme a questo genere di sviluppi che la pacifica Daria sia indotta a pensare al terrorismo: è tipico della radicalizzazione degli scontri che spinge alcuni giovani di famiglie 'bene' a trovar sbocco sentimentale in un'opposizione radicale al 'sistema', né piú e né meno di quanto sia avvenuto nel secondo Ottocento in Russia, quando i pacifici e colti <i>čajkovcy</i>, dopo l''andata al popolo' e i due odiosi processi 'dei Cinquanta' e 'dei Centonovantatré', passarono alla lotta armata.<br />
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<br />
Nel film l'allusione cade sull'insorgente ondata terroristica dei Weather Underground che, staccatisi dalla New Left della SDS, iniziarono una campagna dinamitarda rivolta agli edifici governativi e alle banche a partire dal 1970. Ma la visione di Antonioni è anticipatoria, poiché in <i>Zabriskie Point </i>v'è già un accenno all'attacco alle famiglie americane, ossia alla quotidianità della vita privata, che i Weathermen intrapresero solo in una fase successiva.<br />
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Antonioni non si limita ad interpretare le ragioni dell'odio e le possibili conseguenze, ma ci mette del suo nel criticare le forme d'arte asservite al sistema, a cominciare dalla 'alternativa' Pop Art. L'odio genera una frantumazione insanabile, in cui, se non v'è piú spazio per la trasognante libertà separatista, non v'è neppure alcun luogo sicuro per l'impermeabile settarietà raffigurata dagli oggetti verticali.<br />
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjWRlN4IOGIlMAxSIi7DnVAoNmJP-hoUTtx79v5F9qXVYkXw9NAShFk3nTJRChjgX0Xcn6BU5fcpzM95dk4msXoVMx-5K94hZU-05Ok4HfzhyFMcTSf6vbMiubh95qwA2KbWoa6nKSKouo/s1600/zabriskie_point5.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjWRlN4IOGIlMAxSIi7DnVAoNmJP-hoUTtx79v5F9qXVYkXw9NAShFk3nTJRChjgX0Xcn6BU5fcpzM95dk4msXoVMx-5K94hZU-05Ok4HfzhyFMcTSf6vbMiubh95qwA2KbWoa6nKSKouo/s1600/zabriskie_point5.jpg" /></a></div>
<br />
Il regista italiano, con l'ausilio d'uno splendido frammento di "Careful with That Axe, Eugene" dei Pink Floyd, fa deflagrare, a mo' dei lavori di Schifano, gli oggetti che costituiscono lo status symbol del benessere americano, cui Andy Warhol aveva asservito la sua arte in opposizione all'espressionismo astratto il cui sommo esponente era stato Jackson Pollock.</div>
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<br />
Gli oggetti, del tutto riconoscibili ed evidentemente memori dell'artista pop Richard Hamilton, si librano e frantumano nello spazio aereo in cui aveva volato Mark. Poi la villa stessa, esplodendo nuovamente, li fa uscire da sé sempre piú rarefati e informi, come chiazze piú o meno colorate tipiche dell'astrattismo di Pollock.<br />
<br />
Antonioni mette alla berlina l'arte che si vende al mercato industriale, firmando l'omaggio all'astrattismo naturale di un'anima che esprime i propri sentimenti, poiché l'uomo, di là dalle proprie costruzioni sociali, è destinato sempre ad aver a che fare con la natura che brucia in sé tutte le linee del funzionalismo, come il sole antichissimo che, nella chiusa del film, deforma e invade il paesaggio, a segnare il tramonto di un'epoca di opposizioni poco dialogiche, che si schermavano nella mancanza di un vero ascolto reciproco e che avrebbero portato a penosi attriti tesi all'annientamento del 'nemico'.</div>
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<center><iframe allowfullscreen="" frameborder="0" height="261" src="http://www.youtube.com/embed/CGHu--6UzUk" width="450"></iframe></center>
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[<i> puoi scaricare e leggere il saggio nel formato editoriale originale cliccando su: </i><a href="http://www.keepandshare.com/doc/2613210/antonioni-zabriskie-point-pdf-february-21-2011-10-03-pm-193k?da=y">scarica PDF</a> ]<br />
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[pubblicato su <i><a href="http://www.controluce.it/">Notizie in... Controluce</a></i>, n. XIX/2, febbraio 2010, p. 21.]</div>
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<br /></div>Nicola d'Ugohttp://www.blogger.com/profile/15504174801531073127noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-844814479105817641.post-2541761618913028062009-11-17T15:47:00.033+01:002012-04-16T00:00:26.024+02:00Riprendere la differenza: "Doppio sogno" di Schnitzler e "Eyes Wide Shut" di Kubrick<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg9866u0WgIM2EEhyphenhyphenGdAYUjJaHAeHxGq_3BvfXvZmFGHEiiwV-Z1dOMoUv1Pttlx0D-xaXRlAlEEI5XPPND7M6z0MEj3in4HnHfkz51M6ttrKpWeA64gonceRWq-qX8qvkKvar526J22b4/s1600/schnitzler-kubrick01.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg9866u0WgIM2EEhyphenhyphenGdAYUjJaHAeHxGq_3BvfXvZmFGHEiiwV-Z1dOMoUv1Pttlx0D-xaXRlAlEEI5XPPND7M6z0MEj3in4HnHfkz51M6ttrKpWeA64gonceRWq-qX8qvkKvar526J22b4/s1600/schnitzler-kubrick01.jpg" /></a></div>
<br />
La rivisitazione dei miti è un esercizio tipico dei grandi artisti d’ogni tempo, sia perché per affettività e modo di guardare l’universo mondo essi ne son stati la spiante toppa e la chiave, sia perché il mito non calza piú con le necessità loro. La rivisitazione, oltre che un tributo, s’offre come un tradimento di grande fedeltà che rende col tramando linfa novella alla tradizione.<br />
<br />
Un tale omaggio è tipico del cinema, che abbisogna di soggetti che la letteratura non ha smesso di apportare. <i>Eyes Wide Shut </i>(1999) non è nato dalla penuria di soggetti, né da una conversione allo psicologismo schnitzleriano, che in Kubrick v’è sempre stato.<br />
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La psicologia dello scrittore viennese tratteggia con minuto rigore lo <i>Shining </i>(1980), benché l’omonimo romanzo di Stephen King ne sia il soggetto: qui si trattava di tessere l’azione a partire dall’immaginario dei suoi caratteri, per render giustizia all’importanza che il vissuto riveste nelle umane cose. Ne era metafora la ‘guerra’, tema caro al regista newyorkese, in seno a una famiglia con pochi contatti o punto col mondo esterno.<br />
<br />
V’era poi un gioco con gli spettatori, nel fargli credere che Jack Torrance fosse la fonte d’ogni male, irretendoli nei loro luoghi comuni. L’horror, poi, veniva nobilitato all’estrema potenza da un rigore formale che metteva a tema la società americana, il razzismo e il ruolo del lavoro nella modernità.<br />
<br /></div>
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgWXZ3uD9vqjYs9adq9Ox4S7DT4R7cRrXYxbFxoIkz_t_gKyQ5KEyGKp5S3c49_Kn837USe_A5KmaIUu8tqxUaI4Y-ASXAjLXEVzsBuHme_L8T-G6dYd2tX1J9_u6AH_av7y9DosPoU2wI/s1600/schnitzler-kubrick15.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgWXZ3uD9vqjYs9adq9Ox4S7DT4R7cRrXYxbFxoIkz_t_gKyQ5KEyGKp5S3c49_Kn837USe_A5KmaIUu8tqxUaI4Y-ASXAjLXEVzsBuHme_L8T-G6dYd2tX1J9_u6AH_av7y9DosPoU2wI/s1600/schnitzler-kubrick15.jpg" /></a></div>
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Con <i>Eyes Wide Shut </i>Stanley Kubrick, in minuta spoglia, traccia il declino dell’impero americano cosí come Arthur Schnitzler in <i>Doppio sogno </i>(1926) (e già prima in altre opere) raffigurava la fine dei valori asburgici. Lo slittamento da Vienna a New York che ha subito il soggetto non è solo un taglio sulla propria persona di un abito che, perfetto per il viennese, appariva un po’ vieto al newyorkese.<br />
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Entrambe le città sono, al momento dell’ambientazione delle due opere, il centro di potere e di propulsione dei valori che si son diffusi per il mondo. Valori in caduta libera però, per cui sono orditi la novella e il film. V’è la tranquilla mediocrità asburgica da un lato, piena di ipocrisie; e la libertà come valore che vediamo sistematicamente negato dall’atteggiamento mafioso nella Grande Mela ritratta a tinte cupe da Kubrick. In entrambi v’è una base reale per dire certe cose.<br />
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Se in Schnitzler l’intimità cui pungeva la fretta dei coniugi si declinava nello starsene appartati in casa propria per confidarsi i piú reconditi segreti, i coniugi di Kubrick non vedon l’ora di abbandonare il focolare domestico per rifugiarsi, in separata compagnia, nel fragore del party. Essere in società val piú che lo stare in famiglia, ma a che pro si vede. L’uomo di Kubrick è figlio d’una morale tutta patina e superficialità, piegato a chieder consiglio al milionario Ziegler.<br />
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhie6qbYSM3jax0DDYs4myh1z_ydR8sDTWVFbIsz3S8zZL7u53mp0mG8WiDyX5JWBw8RBS7GbDKFedhvSKFe5TuOr6BZgkNBe3OACaXRaemBcMGKZ8x70VdgIKEeTc-5G2M7fMXoBjHN2I/s1600/schnitzler-kubrick06.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhie6qbYSM3jax0DDYs4myh1z_ydR8sDTWVFbIsz3S8zZL7u53mp0mG8WiDyX5JWBw8RBS7GbDKFedhvSKFe5TuOr6BZgkNBe3OACaXRaemBcMGKZ8x70VdgIKEeTc-5G2M7fMXoBjHN2I/s1600/schnitzler-kubrick06.jpg" /></a></div>
<br />
Se Bill Harford è lí alla festa non si può dire che sia per simpatia e affetto in seno a una famiglia, tribù o collettività piú estesa di quanto gli sia serbato nelle proprie mura domestiche: è lí perché, in un ambiente dove circola la droga a fiumi, un medico compiacente è d’estrema utilità.</div>
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiJree4L4FRLdRuIlhCmWW3rxCTLEwFw4_Rose9AltiI_Z4dhABKipU8PQ3zJNBpLVuBA7Yyd_Ea7J5HpAKXqnisET9xt0wES2DLxKZdRa_My2y7Ol8NzffeGTpNwqzvVa_9_6PqjKmqRU/s1600/schnitzler-kubrick20.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiJree4L4FRLdRuIlhCmWW3rxCTLEwFw4_Rose9AltiI_Z4dhABKipU8PQ3zJNBpLVuBA7Yyd_Ea7J5HpAKXqnisET9xt0wES2DLxKZdRa_My2y7Ol8NzffeGTpNwqzvVa_9_6PqjKmqRU/s1600/schnitzler-kubrick20.jpg" /></a></div>
<br />
L’uomo moderno raffigurato da Kubrick è tutto chiuso nel suo ruolo sociale, pronto sempre ad estrarre dal taschino la tessera di <i>medical doctor </i>per commettere i propri abusi alla privacy altrui.<br />
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Tutt’altra piega prendeva in Schnitzler la stizza di Fridolin, che, medico anche lui, si ripiegava in un orgoglio individualistico che lo facesse uscire dall’ovattato torpore del suo ruolo, mascherandosi sempre piú con gran fervore fuori dei bei limiti offerti dal cerimoniale carnevalesco. A tutti voleva contraffarsi, alla moglie e ai suoi informatori, passando con gran diletto per un poliziotto e un mascalzone. Né temeva di sfidare un parente dell’Imperatore, poiché in lui s’offriva la scappatoia del codice d’onore: un universo di valori che Schnitzler aveva visto naufragare sotto i suoi occhietti ironici.<br />
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjKJoPwNGrTxBgx9vgWXt4P-s7XSTCN39UYdpWLPTEdGQkX6oUocT7ydukF-BqyTFQKTEJWRJ9t7oKBZsAHwOan_nCTewMDCfmpMY785DrHUJcaZyLssN-lnlCeB66ueTNE3Bh6G_VndT0/s1600/schnitzler-kubrick16.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjKJoPwNGrTxBgx9vgWXt4P-s7XSTCN39UYdpWLPTEdGQkX6oUocT7ydukF-BqyTFQKTEJWRJ9t7oKBZsAHwOan_nCTewMDCfmpMY785DrHUJcaZyLssN-lnlCeB66ueTNE3Bh6G_VndT0/s1600/schnitzler-kubrick16.jpg" /></a></div>
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Porre una domanda ad altri e riceverne una risposta può esser pratica encomiabile in una società di pari, come avviene nei dialoghi platonici: in una società in cui il potere è differenziato fra i soggetti, come quella statunitense del magnate Zeigler e di Harford, questa pratica è del tutto insopportabile, poiché svuota di contenuto la parola <i>freedom</i>, libertà, tanto sbandierata negli States. Perciò Kubrick si inventa il personaggio di Zeigler, paternalistica figura inconciliabile con la stizza individualistica del Fridolin di Schnitzler.</div>
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Harford è un uomo che non ha nessuna possibilità di uscita che assoggettarsi al desiderio altrui. Egli è svuotato di ogni valore morale, volontà e coscienza di ciò che lo attorni: si piega a Ziegler e alla propria moglie come uno scolaretto, mentre il suo ruolo è quello di un libero professionista bene integrato nel sistema americano. Lui, pedina, ha un groppo alla gola al solo pensiero d’esser pedinato.<br />
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjvhbnFfzxh3Ip4OJFwn7eVsx17h-CGJIkPaF7MY93F3MBjoWc7Td05g-IQoPasrc0YxsraPsJDwYG4GZPwfGttzsYFaVGhCUBAmV9644SaG0vkC0Fx8YIlHAuIVG1wmUoDSgNnEa0rhbg/s1600/schnitzler-kubrick19.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjvhbnFfzxh3Ip4OJFwn7eVsx17h-CGJIkPaF7MY93F3MBjoWc7Td05g-IQoPasrc0YxsraPsJDwYG4GZPwfGttzsYFaVGhCUBAmV9644SaG0vkC0Fx8YIlHAuIVG1wmUoDSgNnEa0rhbg/s1600/schnitzler-kubrick19.jpg" /></a></div>
<br /></div>
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Altra rovina dové vedere Arthur Schnitzler e con ben altro dolce sapore nel constatare come le ipocrisie dell’autoritarismo asburgico venissero a galla come tappi di sughero infilati nelle falle troppo dilatate della mediocrità viennese. Era il problematico passaggio ai sistemi liberali che gli si disponeva sotto gli occhi, a cose fatte, si può dire, dopo il crollo di un impero.<br />
<br />
Ma a Kubrick, che ha sempre avuto in sospetto i proclami libertari del suo paese poi lasciatolo per approdare in Inghilterra, il mito di <i>Doppio sogno </i>doveva apparire una speranzosa novella che avrebbe egli stesso sottoscritto di buon cuore, se non avesse visto i meccanismi perversi che informano la contemporanea americanità.<br />
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<center><iframe allowfullscreen="" frameborder="0" height="338" src="http://www.youtube.com/embed/YdPnXIciXEs" width="450"></iframe></center>
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[pubblicato in: <i><a href="http://www.controluce.it/">Notizie in... Controluce</a></i>, n. XXVIII/11, novembre 2009.]</div>
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Bibliografia: </div>
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<br /></div>
<ul style="text-align: justify;">
<li><span style="font-variant: small-caps;">Ascarelli, Roberta</span>, <a href="http://bit.ly/JlcxSI"><i>Arthur Schnitzler</i></a>, Edizioni Studio Tesi, Pordenone 1995. </li>
<li><span style="font-variant: small-caps;">Cimmino, Luigi, Daniele Dottorini e Giorgio Pangaro</span>, <i>Il doppio sogno di Stanley Kubrick. </i>Traumnovelle-Eyes wide shut<i>: contributi per una lettura comparata</i>, Il Castoro, Milano 2007.</li>
<li><span style="font-variant: small-caps;">D'Ugo, Nicola</span>, «<a href="http://sullaletteratura.blogspot.it/2009/09/arthur-schnitzler-e-linsostenibile.html">Arthur Schnitzler e l'insostenibile insicurezza dell'immaginazione</a>», <i>Notizie in... Controluce</i>, n. XVIII/10, ottobre 1999.</li>
<li>--, «<a href="http://cinecarte.blogspot.it/2009/06/eyes-wide-shut-di-stanley-kubrick.html"><i>Eyes Wide Shut</i> di Stanley Kubrick</a>», <i>Notizie in... Controluce</i>, n. VIII/12, dicembre 1999. </li>
<li>--, «<a href="http://sullaletteratura.blogspot.it/2009/10/girotondo-di-arthur-schnitzler.html"><i>Girotondo</i> di Arthur Schnitzler all'Eliseo</a>», <i>Notizie in... Controluce</i>, n. XV/5, maggio 2006.</li>
<li><span style="font-variant: small-caps;">Magris, Claudio</span>, «Arthur Schnitzler», in <span style="font-variant: small-caps;">Id</span>., <i>Il mito absburgico nella letteratura austriaca moderna</i>, Einaudi, Torino 1963, pp. 221-234. </li>
<li><span style="font-variant: small-caps;">Maslin, Janet</span>, «<a href="http://partners.nytimes.com/library/film/071699eyes-film-review.html"><i>Eyes Wide Shut</i>: Danger and Desire in a Haunting Bedroom Odyssey</a>», <i>New York Times</i>, 16 giugno 1999. </li>
<li><span style="font-variant: small-caps;">Morón, Victoria</span>, «<a href="http://www.apuruguay.org/node/174">Transfiguraciones del objeto erótico en la novela Extraño sueño de A. Schnitzler</a>», <i>Biblioteca Uruguaya de Psicoanálisis, Vol. VII «Trazas y ficciones: Literatura y Psicoanálisis»</i>, 2007, pp. 57-63. </li>
<li><span style="font-variant: small-caps;">Schnitzler, Arthur</span>, <i>Doppio sogno</i>, Adelphi, Milano 1998. </li>
</ul>
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<br /></div>
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Su internet:</div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://it.wikipedia.org/wiki/Arthur_Schnitzler">Wikipedia: Arthur Schnitzler</a>. </div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://it.wikipedia.org/wiki/Stanley_Kubrick">Wikipedia: Stanley Kubrick.</a> </div>
<div style="text-align: justify;">
<a href="http://stanleykubrick.interfree.it/">Stanley Kubrick online</a>.</div>Nicola d'Ugohttp://www.blogger.com/profile/15504174801531073127noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-844814479105817641.post-38743510638366557672009-10-10T19:22:00.021+02:002012-04-16T04:16:13.074+02:00Emilio Miraglia: "La dama rossa uccide sette volte"<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjddMJovwaMnbri_C9GARF9UVtSLDo9LkoNEFdqKTJU1zqMgBA-iTGeKiWdLHAa5yGw7Qwvc8qPAFyiUgjJHlO9PbljbCxs_v_B3RObOtTTWyCnV8HYsblgutlQeQXt5o6ZZZ6E_0Wapwg/s1600/la_dama_rossa-30.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjddMJovwaMnbri_C9GARF9UVtSLDo9LkoNEFdqKTJU1zqMgBA-iTGeKiWdLHAa5yGw7Qwvc8qPAFyiUgjJHlO9PbljbCxs_v_B3RObOtTTWyCnV8HYsblgutlQeQXt5o6ZZZ6E_0Wapwg/s1600/la_dama_rossa-30.jpg" /></a></div>
<br />
<i>La dama rossa uccide sette volte</i> (1972) di Emilio Miraglia è un film che non può accampare grandi pretese nella gloriosa cinematografia nostrana. Secondo una leggenda tenuta in fede da una famiglia aristocratica, due sorelle sono destinate ad emulare le loro antenate, la dama rossa e la dama nera, uccidendosi l’un l’altra e tornando dopo la morte a vendicarsi.<br />
<br />
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Su questo sfondo si svolge la vicenda di un film i cui limiti si leggono nella penuria di quei tecnicismi che, sottilmente coniugati, fan parlare di magia del cinema: quest'arte fatta di molte arti, non ultimo lo sguardo denso e profondissimo della pittura.<br />
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Un limite de <i>La dama rossa uccide sette volte</i> è costituito dalla piattezza di campo, con l'elezione del piano unico come sguardo fotografico, che si priva della dialettica tra personaggi e ambienti e della conseguente imbastitura semantica. Ne risulta un taglio fumettistico che, nei casi migliori, ricorda un certo Chabrol dell'epoca nei primi piani, non foss'altro che il denominatore comune va ricercato in Hitchcock.<br />
<br />
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<br />
Le molte zeppe degli snodi servono a far calare il vieto <i>deus ex machina</i> nello scioglimento della vicenda, che chiarisce in retrospettiva i moventi degli assassinî.<br />
<br />
Sul versante interpretativo, preso l'alveo fumettistico se non proprio del fotoromanzo, gli attori sono scelti con buona perizia, per offrirsi come tipi umani imbalsamati in 'maschere' inespressive, con variante tra pena e sorrisetti.<br />
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg2HQdp-ra9zrXcU_6QChQ_iWcI6iyKYaIsmcI8PnzrHOQGaJQaEMhcShN3ra9CWWvLBOwUHSa39-EtXRID0PfRtaKoxwn3ZS4xBE4d77QNCy6s5wAxSaJxn1yOkTu5gIpKz3mQA3Y0T2w/s1600/la_dama_rossa-35.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg2HQdp-ra9zrXcU_6QChQ_iWcI6iyKYaIsmcI8PnzrHOQGaJQaEMhcShN3ra9CWWvLBOwUHSa39-EtXRID0PfRtaKoxwn3ZS4xBE4d77QNCy6s5wAxSaJxn1yOkTu5gIpKz3mQA3Y0T2w/s1600/la_dama_rossa-35.jpg" /></a></div>
<br />
Ne è un esempio d'eccellenza Ugo Pagliai, il cui volto, nella parte di Martin Hoffmann (vicepresidente di un'azienda leader dell'abbigliamento), scongiura qualsiasi indulgenza ai tic e al vibrato mimico che sottopelle caratterizza gli attori che abbiano l'ambizione di rendersi famosi al secolo: al confronto, la glaciale e tenera Barbara Bouchet, nei panni della fotografa Kitty Wildenbrück, sembra addirittura sciorinare una teoria dei sentimenti profondi, benché nulla del passato e del vivo carattere di una donna possa dirsi incarnato dall'attrice.<br />
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjQMwn1M-fM3YCaIbw2S8cQfIVX2jwv69z5xN4huMr394o4NsjK8YTntnaVS_2axjIqCS7mPA_tkjFIw_vsjOva-nGXOTUEOqeOI0pqfxh284SOUaop50Mv5qTFiUdRPAg_noS16OLEZoo/s1600/la_dama_rossa-38.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjQMwn1M-fM3YCaIbw2S8cQfIVX2jwv69z5xN4huMr394o4NsjK8YTntnaVS_2axjIqCS7mPA_tkjFIw_vsjOva-nGXOTUEOqeOI0pqfxh284SOUaop50Mv5qTFiUdRPAg_noS16OLEZoo/s1600/la_dama_rossa-38.jpg" /></a></div>
<br />
È così che il personaggio che emerge con maggior umanità è il funzionario di polizia, ottimamente interpretato da Marino Masé. Il che, per un ruolo comprimario, è notoriamente un controsenso.<br />
<br />
Nonostante queste pecche, il film risulta godibile, poiché, a prescindere dalle zeppe, la sceneggiatura s’affastella in un finale intricato che ricorda certi crescendi dostoevskiani, anche se poi colei che ha il <i>physique du rôle</i> più consono a stringere il pugnale dell’impassibile carnefice si rivela l’assassina vera. La ritmica del film, tenuta all'ambio da atmosfere consone alle scene (spesso di esito molto felice), non offre mai il fianco ai sopori del cuscino e risulta al contrario interessante.</div>
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjHYBl__nfGvoumcJV7SL9JSntY6hxF7OtAg9MLv1Vfls-A5AyXcn80UWPDeEEwu6hME16zLHCNmR-PFEj09mKrBozGR8mkaVYbaL7aWdLD04KHBi_NuZFhNkDuItkPxMLxfwtFIAW9hyg/s1600/la_dama_rossa-39.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjHYBl__nfGvoumcJV7SL9JSntY6hxF7OtAg9MLv1Vfls-A5AyXcn80UWPDeEEwu6hME16zLHCNmR-PFEj09mKrBozGR8mkaVYbaL7aWdLD04KHBi_NuZFhNkDuItkPxMLxfwtFIAW9hyg/s1600/la_dama_rossa-39.jpg" /></a></div>
<br />
Anche la fotografia, perduta ogni speranza di avventurarsi in campo lungo su scenografie semanticamente pregne di indizi psicologici e sociali, serve bene l'intento della regia di tenersi sul filo della vicenda, a scapito di una serrata critica d'ambiente e della metatestualità di genere: come se, nel raccontar bene una storia, s'esaurisse il precipuo compito del regista artigianale.<br />
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh3kycVJsAQQ90SUXZSPwzMf_PbEMZNePzeNRq7FyQQ3oH8pNVotn-eZJSk8NjrK-hSukvbhulWv7sT7LujR81U8sXRpn7QpE7JGQsdwZWhF8Ahkekbd34e6eYgB4QXZ0dOwyyvLoCQTMQ/s1600/la_dama_rossa-36.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh3kycVJsAQQ90SUXZSPwzMf_PbEMZNePzeNRq7FyQQ3oH8pNVotn-eZJSk8NjrK-hSukvbhulWv7sT7LujR81U8sXRpn7QpE7JGQsdwZWhF8Ahkekbd34e6eYgB4QXZ0dOwyyvLoCQTMQ/s1600/la_dama_rossa-36.jpg" /></a></div>
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Le belle scene discinte sono invece fuori luogo, poiché ammiccano allo spettatore poggiando sull’abusata dicotomia Eros/Thanatos tipica dei film horror italiani. Avrebbero avuto un senso se protagonista della storia fosse stato Martin Hoffmann, attratto da molte donne in un proprio incubo personale, indiziato qual è dalla polizia.<br />
<br />
Ma tale centralità del personaggio non avendo ragion d’essere, l'indulgenza alla sensualità è inopportuna, non foss'altro che la <i>passio amoris</i> non costituisce il movente degli omicidî che fanno da fulcro alla narrazione: un errore che non mi è mai capitato di vedere in giallisti o <i>mystery tellers</i> di stazza come Chabrol, Robbe-Grillet o Fassbinder, che ne fanno un uso sempre declinato in semiosi o se ne privano affatto.<br />
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgSqnXc2tj7vMNXtwyoRpYLu56SJKchBnBIum3xPg02U-ktOdwmeBa_qUSrTqQnTxzMiSCmgUfDVIMDJOevLbmX-B93ckQzBlHFlITMv4lQ0RpNj0ozEdb2WSFJv_9pR4tGfoh9cUpcBgQ/s1600/la_dama_rossa-37.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgSqnXc2tj7vMNXtwyoRpYLu56SJKchBnBIum3xPg02U-ktOdwmeBa_qUSrTqQnTxzMiSCmgUfDVIMDJOevLbmX-B93ckQzBlHFlITMv4lQ0RpNj0ozEdb2WSFJv_9pR4tGfoh9cUpcBgQ/s1600/la_dama_rossa-37.jpg" /></a></div>
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Invece Miraglia si appropria di elementi alla moda, con un’iterazione di tipi (specialmente femminili) insopportabilmente troppo belli, d’una bellezza per lo piú statica (il che è tutto dire), che cercan di far da riempitivo iconico al botteghino con cui debbono destreggiarsi i produttori.</div>
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Tali elementi impoveriscono sensibilmente il film, attraverso indici tematicamente fuorvianti che si accompagnano alla scadente resa realistica della psicologia umana. Non scagiona la pecca psicologica il taglio favolistico di certe scene, garbatamente costruite, se tale imbastitura vien dipoi ordita qua e là alla rinfusa, a vantaggio di una ricaduta nel realismo, che negli anni Settanta doveva apparire un <i>must</i>.</div>
<br />
<br />
<center><iframe allowfullscreen="" frameborder="0" height="253" src="http://www.youtube.com/embed/7RCbWrUlYtY" width="450"></iframe></center>
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[pubblicato in: <i><a href="http://www.controluce.it/">Notizie in... Controluce</a></i>, n. XXVIII/10, ottobre 2009.]</div>Nicola d'Ugohttp://www.blogger.com/profile/15504174801531073127noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-844814479105817641.post-87137212170020016252009-09-25T15:59:00.024+02:002012-04-30T16:10:53.651+02:00Jacques Rivette: "Storia di Marie e Julien"<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEivOHTb9uk9OZa0t96GprJrLNmCDCTdVZPQMZcbczKLcDSQceH9p4GU5ozn-zVIS1ihVNVuV2BlTDgcVIbGAUQeGPNw-SCjTrRSa51p8nA9SkECkJT0H0XQdkpuEwsoBqYKRznkqRyHY8g/s1600/00000+mariejulienFR01.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEivOHTb9uk9OZa0t96GprJrLNmCDCTdVZPQMZcbczKLcDSQceH9p4GU5ozn-zVIS1ihVNVuV2BlTDgcVIbGAUQeGPNw-SCjTrRSa51p8nA9SkECkJT0H0XQdkpuEwsoBqYKRznkqRyHY8g/s1600/00000+mariejulienFR01.jpg" /></a></div>
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Nell’ultimo film di Jacques Rivette, <i>Storia di Marie e Julien</i> (<i>Histoire de Marie et Julien</i>, 2003), l’orologiaio Julien (Jerzy Radziwiłowicz), che ricatta la ricca Madame X (Anne Brochet), incontra casualmente per strada Marie (Emmanuelle Béart), che aveva conosciuto un anno prima. I due si piacciono subito e Marie si stabilisce da Julien.<br />
<br />
Vi sono lati oscuri nella vita di entrambi, non se ne fanno mistero, si riservano dichiaratamente i propri segreti. Attraverso poche battute, Rivette descrive i buoni sentimenti dei due, il desiderio represso di confessarsi, la cordiale gelosia, il bisogno reciproco.<br />
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<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhNU9QMxctYortaE36EApLKnv4EJDGaVWAovwpv4RG1FALTv9UFVj6Di85dEOSeXrxTbb98Ix2BECwJyXtktx8Yqj_SnWbRrYhDLAiO16HAcaKj0qNDLTh_xea6Xk541v6zFivLN6zo5ik/s1600/0000+03.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhNU9QMxctYortaE36EApLKnv4EJDGaVWAovwpv4RG1FALTv9UFVj6Di85dEOSeXrxTbb98Ix2BECwJyXtktx8Yqj_SnWbRrYhDLAiO16HAcaKj0qNDLTh_xea6Xk541v6zFivLN6zo5ik/s1600/0000+03.jpg" /></a></div>
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L’amore non si fonda sulla conoscenza dell’amato. La relazione amorosa è radicata sui propri sentimenti, i cui effetti consistono nella pienezza della propria vita, tenerezza, passione, intesa, condivisione e rispetto della singolarità dell’altro. Rivette descrive un amore maturo, consapevole dei rischi dell’investimento affettivo, fra due persone che avevano già creduto di amare.</div>
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<br />
Per ciascuno c’è una storia d’amore alle spalle, e per ciascuno non conta. L’amico di Marie è morto, e la donna di Julien se ne è tornata in paese. Il simpatico gatto di Julien annuncia il motivo dell’anima incomprensibile, con cui si convive, prefigurando il personaggio di Marie. Il suo nome, Nevermore («Mai più», in ingl.), mutuato da «Il corvo» di Edgar Allan Poe, non serve a fare da spia all’originale significato della poesia del grande poeta americano: lo commenta differenziandosi, in una dimensione dell’amore che ritorna, non nella persona dell’ex di Julien, ma in quella di Marie. Al gatto sono dedicate alcune straordinarie sequenze del film. Il gatto è un animale tradizionalmente associato ai riti della rinascita e alle trasmutazioni delle streghe.</div>
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhdrSwAx-HjK77duWIxmfpyjczibaNHVx6Eq2DhjjMcxOHCqM3r2bCf8r8W1NszorGeNbVwqnW9XNBeWjXOnVpaNKPfY0eGgB85LHbdFbgibhDILT4DZIQm67i7K6nSyVdf0SeJMPppqW4/s1600/00000+2003+-+Jacques+Rivette+.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhdrSwAx-HjK77duWIxmfpyjczibaNHVx6Eq2DhjjMcxOHCqM3r2bCf8r8W1NszorGeNbVwqnW9XNBeWjXOnVpaNKPfY0eGgB85LHbdFbgibhDILT4DZIQm67i7K6nSyVdf0SeJMPppqW4/s1600/00000+2003+-+Jacques+Rivette+.jpg" /></a></div>
<br /></div>
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<i>Storia di Marie e Julien</i> è scandito in quattro parti, dai titoli che suggeriscono l’assorbimento del presente torbido dall’uno all’altra amante: «Julien», «Julien e Marie», «Marie e Julien» e «Marie». Il ricattatore iniziale viene, in «Julien e Marie», riconosciuto per tale da Marie che si offre di condividere l’iniziativa dell’uomo; la storia d’amore, turbata nella terza parte dall’idea che Marie sia una morta vivente, è talmente intensa che, scoperta la tragedia, Julien nella quarta parte preferisce uccidersi che vivere senza l’amata e viene salvato da lei. L’inquietante dell’altro è metafora della diversità fra l’ideale amoroso e la persona amata quale si va manifestando nell’esperienza.</div>
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Riassumendo un intreccio articolato, Marie è tornata in vita per riscattarsi di una colpa: aver fatto credere che la propria morte fosse stata causata dall’ex amante (cioè aver sostituito l’odio all’amore). Per riscattarsi Marie deve amare di un amore corrisposto. Non può farlo con l’ex, perché è morto. Julien è l’unico conosciuto in vita che Marie potrebbe amare d’un tale amore. Il guaio è che Julien, amandola, l’aiuta a riscattarsi, mentre Marie, conosciuto l’amore, non vuole privarsene.<br />
<br />
L’intreccio corrisponde a una descrizione metaforica dell’introspezione psicologica degli amanti, per cui anche il ricatto apparentemente immotivato di Julien (a Madame X) è una metafora del suo rapporto con le donne in genere, alle quali, nella persona della ricattata, chiede gli venga elargito, in modo odioso, un riscatto.</div>
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<br />
I quattro personaggi principali del film (Julien, Marie, Madame X e Adrienne, sorella suicida di quest'ultima) intrecciano una quadriglia motivata dal riscatto, ai cui angoli estremi sono Julien e Adrienne. Quest'ultima presenta analogie inquietanti con l’ex di Julien, dalle taglie del vestiario al fatto che Julien, oltre ad avere i documenti che compromettono Madame X, ha la casa piena della roba della propria ex: non come se fosse andata via per sempre, ma come se non fosse mai tornata.</div>
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Questo non chiarisce che Adrienne sia l’ex di Julien, se non nei termini della strategia della dimenticanza di Julien (egli sembra davvero non conoscerla, come nel finale non riconoscerà Marie). L’ex di Julien potrebbe aver avuto la stessa sorte, al modo che l’ex datore di Marie, innamorato di lei, si era visto improvvisamente abbandonato dalla dipendente, senza aver saputo della sua morte.<br />
<br />
Sono increspature della conoscenza queste che ci offre Rivette, con una logica di fondo fatta di continue corrispondenze, ma che non vuole essere esaustiva. L’amore non è riconducibile a teorie praticabili, benché siano potenzialmente praticabili le ricostruzioni amorose. È il voluto <i>je ne sais quoi</i> che l’articolazione giustificativa di Rivette rende ancora più vero.<br />
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<br />
Come in molti film di Buñuel, <i>Storia di Marie e Julien</i> si svolge all’interno di una cornice (un lungo sogno di Julien), con episodi onirici (e direi allucinatori) che si innestano nella narrazione (e nel sogno stesso, come nel «simile a chi sognando / desidera sognare» di Gozzano): alcuni esempi di questo tipo sono l’impiccagione tentata e quella eseguita di Marie, mentre quella tentata di Julien non è un inserto onirico (benché il tutto possa essere contenuto in un sogno), come si desume dalla presenza/assenza del dolcevita di Marie nelle scene.<br />
<br />
Rivette riconquista al realismo, attraverso la cornice del sogno, una storia dai tratti e dai contenuti gotici, per cui, alla fine, benché Julien abbia solo sognato, la storia è stata comunque narrata, visto che, in fondo, quello che conta è che la storia sia solo percepita come figura, da Julien, da Marie, dallo spettatore. Peraltro, i sogni di Rivette (e quelli del Buñuel francese) si manifestano come tali nell’ambito della finzione e, nella forma, solo nella misura in cui presentano qualche elemento fattivamente incredibile, senza articolazioni oniriche consistenti tipiche del surrealismo, che rappresenta meglio, seppur simbolicamente, il sogno.</div>
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhWs4LO1VvetYusqNUSs3uem-w8HZcAtwQ3wLbOgksj-5OiqXEsvfs3oOxJ6nBQJwg3jqK3VDvPOoi7rpExWXb2bBiZPUbQQN-pcZicjbFuwZe_my5I92rx2b-nx6IAi3KcAAbuse7w460/s1600/00000+01.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhWs4LO1VvetYusqNUSs3uem-w8HZcAtwQ3wLbOgksj-5OiqXEsvfs3oOxJ6nBQJwg3jqK3VDvPOoi7rpExWXb2bBiZPUbQQN-pcZicjbFuwZe_my5I92rx2b-nx6IAi3KcAAbuse7w460/s1600/00000+01.jpg" /></a></div>
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Rivette si affida a quel principio dell’arte che è l’esemplificazione, su cui poggia anche il naturalismo filmico, benché quest’ultimo non ne sveli le regole, continuando a fingere di raccontare storie reali. Non abbandona l’intensa esposizione drammatica, poiché ogni inserto onirico viene giustificato in una cornice realistica: le lunghe scene, inutili per l’intreccio, sono finalizzate sia a rappresentare, con un’estetica rigorosa, la solitudine della singolarità dei personaggi nell’ambiente che li ospita, i minuti gesti quotidiani della storia d’amore e la cura che ciascuno vi dedica, sia a permettere allo spettatore di ricostruire la storia senza il tipico espediente dell’inquadratura dei dettagli di tanto cinema realistico. Per questo Rivette fa un uso raffinatissimo della panoramica, scorrendo nella scena con la macchina da presa e indugiando su personaggi e ambiente.</div>
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh_yI4OVQcxQmLcSM3P7BnexNVOeX3Vd1ZYp6-sc5suFnDuhpv8Sx-sfBdjTwgaxzajcfuSXJm9y7daUc_EQbgrfV_f5cly_BCFDHq0S0a7y04kRKVPPjyaXZ1q8Dr6MXYuVxWuzTtBvNE/s1600/0000+09.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh_yI4OVQcxQmLcSM3P7BnexNVOeX3Vd1ZYp6-sc5suFnDuhpv8Sx-sfBdjTwgaxzajcfuSXJm9y7daUc_EQbgrfV_f5cly_BCFDHq0S0a7y04kRKVPPjyaXZ1q8Dr6MXYuVxWuzTtBvNE/s1600/0000+09.jpg" /></a></div>
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La casa di Julien, in cui è ambientata buona parte del film, è il luogo che ospita l’amore, sospeso fra la vita e la morte, fra ciò che resta, ciò che è dimenticato e ciò che può offrire al futuro. È piena di orologi e stanze vuote. Julien insegna a Marie come riconoscere il perfetto isocronismo negli orologi. Il tempo riveste una funzione importante nell’economia simbolica del film, reso da continui rumori nel silenzio, ticchettio e suonerie, squilli improvvisi del telefono.</div>
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<br />
In <i>Storia di Marie e Julien</i> viene riproposto il taglio da film giallo, tipico della Nouvelle Vague, di cui Rivette è un fondatore. Tutto l’intreccio costituisce la trama da cui gli amanti sono costretti a districarsi. Vi sono diecine di situazioni di questo tipo, come vi sono diecine di ripetizioni variate (uso del doppio), tese a precisare, come i sosia in Dostoevskij, le differenze nelle somiglianze, poiché, hegelianamente, Rivette nega la ripetitività ed esalta le singolarità che si sviluppano e concretizzano nello snocciolamento degli eventi.<br />
<br />
L’amore per Rivette non è un concetto astratto, esso si concretizza con due amanti che, con le loro singolarità, sentono il bisogno l’uno dell’altra per essere vivi. La storia d’amore è infatti orientata verso la vita, le cui metafore più evidenti sono la carnalità di Marie, rivitalizzata dalle lacrime e dal sangue, e il superamento dell’apatia della vita di Julien, che, come il protagonista de <i>Lo straniero </i>di Albert Camus, sembra dire: «Tout m'est égal», tutto mi è indifferente.<br />
<br /></div>
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj7mnzrjU-qJBk1eBxeAJDBWzXGXRLKK39NJ_jzF-Ml0UBPn4leLbp2ofSRcm3p-U3IjBTs1a2hc4uWWdM2udwHc0deZXiGULZ7V9V13VWV-XyqZXfIojJ1QJbQ8XAFh_geLztoycFY_bI/s1600/00000+3965__paen.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj7mnzrjU-qJBk1eBxeAJDBWzXGXRLKK39NJ_jzF-Ml0UBPn4leLbp2ofSRcm3p-U3IjBTs1a2hc4uWWdM2udwHc0deZXiGULZ7V9V13VWV-XyqZXfIojJ1QJbQ8XAFh_geLztoycFY_bI/s1600/00000+3965__paen.jpg" /></a></div>
<br />
Elenco parziale delle situazioni da cui gli amanti sono chiamati a districarsi:<br />
<ol>
<li>dal ricatto di un’assassina che si rivela innocente;</li>
<li>dalla propria gelosia che non ha motivo di tormentare;</li>
<li>dall’abbandono per non sentirsi annientati;</li>
<li>da una tendenza al suicidio che si rivela prodotta da un rapporto d’amore sbagliato;</li>
<li>dai limiti del proprio corpo appassionato attraverso un linguaggio erotico da fiaba gotica;</li>
<li>dalla propria incredulità che si rivela infondata;</li>
<li>da un cappio pensato per sé e ritrovato intorno al collo dell’amato;</li>
<li>dal sonno da cui provengono le voci dell’aldilà che ostacolano l’amore;</li>
<li>dai propri segreti che si rivelano un punto di forza se scoperti dall’amato;</li>
<li>dalla propria ignoranza del passato dell’altro che ne motiva le azioni;</li>
<li>da un ultraterreno riscatto che si rivela meno importante dell’amore;</li>
<li>da un futuro determinato che si rivela non essere un destino.</li>
</ol>
</div>
<div style="text-align: justify;">
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhIyKFOR5XkA8lmQSvBh4jz3kVVzvOQwrOdr9S3M2AarMJA9DsnrIaKspF49pwfWw9l514afXVdhuiQYNv06Q-Wqeo2KGQKtKM4OChQ2AzqmiCbJ6WlNIu2S8XiFGKGCGlp1NEd6oXwJWk/s1600/0000+08.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhIyKFOR5XkA8lmQSvBh4jz3kVVzvOQwrOdr9S3M2AarMJA9DsnrIaKspF49pwfWw9l514afXVdhuiQYNv06Q-Wqeo2KGQKtKM4OChQ2AzqmiCbJ6WlNIu2S8XiFGKGCGlp1NEd6oXwJWk/s1600/0000+08.jpg" /></a></div>
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</div>
<br /></div>
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Un elenco esemplificativo dell’uso del doppio:<br />
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</div>
<ol>
<li>gli incontri separati di Julien con due sconosciute all’inizio del film;</li>
<li>il rischio penale per la donna ricattata e per l’amante di Marie;</li>
<li>le due visite della ricattata a Julien all’inizio e alla fine del film;</li>
<li>la visita inaspettata della ricattata e quella di Marie da Julien;</li>
<li>le due cifre del ricatto di Julien;</li>
<li>il gatto e Marie amati da Julien;</li>
<li>la doppia telefonata di lavoro a Julien;</li>
<li>i due appuntamenti mancati di Julien;</li>
<li>i luoghi dei primi due appuntamenti tra Julien e Marie;</li>
<li>la telefonata di Julien per trovare Marie seguita da quella anonima che gli dice dove trovarla;</li>
<li>gli ex di Julien e Marie;</li>
<li>la stanza dell’ex di Julien e la stanza di Marie;</li>
<li>la doppia stanza di Marie;</li>
<li>le due donne della fotografia;</li>
<li>la doppia incomprensibile dichiarazione amorosa di Marie a Julien;</li>
<li>le due donne che Marie incontra a causa di Julien;</li>
<li>le due suicide che devono riscattarsi;</li>
<li>la morte di Marie e quella del suo ex;</li>
<li>la donna ricattata e Julien che devono riscattare le suicide;</li>
<li>i due incontri di Marie con la donna ricattata;</li>
<li>i due abbandoni di Julien da parte di Marie;</li>
<li>i due contatti di Julien con l’ex datore di lavoro di Marie;</li>
<li>Julien e l’ex datore innamorati di Marie;</li>
<li>i due uomini che Julien incontra a causa di Marie;</li>
<li>le due impiccagioni di Marie;</li>
<li>il tentativo fallito di impiccarsi di Marie e quello di Julien;</li>
<li>la comparsa dell’arma da taglio all’inizio e nel finale;</li>
<li>la doppia ferita che il coltello infligge agli amanti;</li>
<li>le due ferite esangui di Marie;</li>
<li>la ferita insanguinata di Julien e quella di Marie;</li>
<li>la ripetizione finale dell’evanescenza di Marie.</li>
</ol>
</div>
<div style="text-align: justify;">
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiayIfLgA2yMaLI9Sd7L5DJSO_4UtMXdXWr8_W7wR8m2O3B2OfJHRN49aOvGSa3maJIh5uK9mV8mNMxuFfiBVglOaIX9IV7ELW-KHC_TX1iICfsHuhQP4tR2N5dKOvXTHvzKLkck1yaKbY/s1600/0000+2003+-+04Jacques.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiayIfLgA2yMaLI9Sd7L5DJSO_4UtMXdXWr8_W7wR8m2O3B2OfJHRN49aOvGSa3maJIh5uK9mV8mNMxuFfiBVglOaIX9IV7ELW-KHC_TX1iICfsHuhQP4tR2N5dKOvXTHvzKLkck1yaKbY/s1600/0000+2003+-+04Jacques.jpg" /></a></div>
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</div>
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Il film è sostenuto dalle straordinarie doti interpretative di Radziwiłowicz, capace di bilanciare con maestria ruvidità, risolutezza, amorevole pazienza e disincantato brio, affiancato dalla determinazione contrastata, ironica e delicata di Emmanuelle Béart e dall’elegante espressività di Anne Brochet, in lunghe sequenze gestuali e di mimica facciale, e in continue variazioni dei registri stilistici, dal naturalistico all’espressionistico, dall’intimistico al brillante, al melodrammatico. Questo, benché l’impegno interpretativo sia sacrificato dalle esigenze del linguaggio filmico di Rivette, che, per esempio, stacca il continuo del pianto di Marie nel montaggio, a ricordarci che il film è solo una figura, non la registrazione di un evento reale.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Nel finale assistiamo al superamento della misoginia di Julien e all’accettazione del vero amore da parte di Marie, un'occasione da non perdere che nulla ha a che vedere con l’odio che l’aveva spinta al suicidio, che, in quanto figura, svolge una funzione non letterale, ma metaforica dell'esperienza amorosa. La storia stessa dell’amore vero e di quello sbagliato si regge sul doppio: senza gli opposti non c’è progresso, e senza progresso non esiste la vita. Nella sua cornice onirica ed esteticamente suggestiva, <i>Storia di Marie e Julien</i> è anzitutto un acuto film esperienziale.<br />
<br />
<br />
<br />
<center><iframe allowfullscreen="" frameborder="0" height="338" src="http://www.youtube.com/embed/QAy6N_YkPtQ" width="450"></iframe></center>
</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<br />
[pubblicato su <i><a href="http://www.controluce.it/">Notizie in... Controluce</a></i>, n. XIV/11, novembre 2005, p. 27 e n. XIV/12, dicembre 2005, p. 28.]</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>Nicola d'Ugohttp://www.blogger.com/profile/15504174801531073127noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-844814479105817641.post-23528590486591047892009-08-26T18:00:00.032+02:002012-05-10T01:15:50.198+02:00Lezioni di vita in contatto secondo Almodóvar: "Tutto su mia madre"<div style="text-align: justify;">
<div style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em; text-align: justify;">
<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj_1fGFN1abjc9HUtdor7wdlJuiAH8xaK18PMoBLOp5VSk1ah_h5Ule2XYPFo0G44XKLovPJKVZPeNA5cS-lFq6zxyGu9QSn_A46rqkp6_m6rHss5VwouJYKxnLRrbvr1GyON7NuuqszVQ/s1600/tuttosumiamadre_16.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj_1fGFN1abjc9HUtdor7wdlJuiAH8xaK18PMoBLOp5VSk1ah_h5Ule2XYPFo0G44XKLovPJKVZPeNA5cS-lFq6zxyGu9QSn_A46rqkp6_m6rHss5VwouJYKxnLRrbvr1GyON7NuuqszVQ/s1600/tuttosumiamadre_16.jpg" /></a></div>
<br />
<i>Tutto su mia madre</i> (1999) di Pedro Almodóvar è un film drammatico. In qualche misura è un film dedicato alle mamme. E si tratta di un ottimo film. A parte queste considerazioni esteriori, il film è crudo, anche sfigato, nella misura in cui su due possibilità, una d’esito positivo e l’altra d’esito negativo, ai personaggi capita sempre il peggio.<br />
<br />
Il meccanismo ha bisogno di una tecnica che sorregga la trama che, messa a nudo, si rivelerebbe tediosa. La fotografia e la ritmica, l’esito felice di alcune caratterizzazioni dei personaggi permettono di mantenere nello spettatore un livello d’attenzione al film senza il quale sarebbe un vero fallimento.<br />
<a name='more'></a><br />
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<br />
Da questo punto di vista, il film è arditamente ben riuscito: ha una minore ampiezza visiva di <i>Short Cuts </i>(<i>America Oggi</i>) di Robert Altman, ma una migliore linearità e fruibilità. Entrambi raccontano i luoghi di tangenza degli uomini della società frammentata e anestetizzata dai propri circuiti, dalle nicchie e dai tragitti di formica che ci stanno sopraffacendo nella nostra stupidità.<br />
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Lo sgretolamento dei legami familiari e le atipiche relazioni amorose costituiscono il tema portante di un’ambientazione sociale che ben rappresenta, se si vuole in sintesi, quello che pare avvenire nelle nostre famiglie. Contro questo sgretolamento, ci dice Almodóvar, c’è poco da ricorrere alla tradizione: occorre rileggere uno scenario mutato.<br />
<br />
Pure, negli uomini, ci sono gli stessi moti d’animo, gli stessi attaccamenti e gli stessi amori della famiglia tradizionale. Egli, come autore, non rappresenta una farsa, ma una situazione atipica che si dimostra in tutti i suoi tratti essenzialmente realistica, e il cui messaggio di fondo è: «C’è poco da scherzare.»<br />
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Il titolo del film è tratto da <i>All About Eve</i>, un classico della cinematografia americana (in italiano: <i>Eva contro Eva</i>). Da quel «Tutto su Eva» dell’originale il figlio di Manuela, la protagonista, decide di scrivere <i>Tutto su mia madre</i>.<br />
<br />
Egli non ha mai conosciuto il padre e vorrebbe riempire quella parte della vicenda materna che gli è oscura con ciò che lo riguarda: il padre. Ma viene investito da una macchina e muore clinicamente poco prima di poterlo sapere. Manuela (Cecilia Roth), infermiera in un reparto di terapia intensiva, dona gli organi del figlio.<br />
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<br />
A questo punto tutto sembra proseguire in avanti, come nell’automatismo di chi è sopraffatto dallo scorrere della vita e dai suoi nuovi scenari (per esempio, la donazione d’organi). Manuela quindi scopre chi è il beneficiario degli organi e lo segue. Ma è una mossa falsa, capace di accentuarle lo stato di sofferenza in cui versa.<br />
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La vita forse occorre che vada a ritroso per essere più vicini a se stessi. Manuela abbandona l’allontanamento dal passato che aveva perseguito per diciassette anni fuggendo con in grembo il figlio all’insaputa del vero padre, e va alla ricerca di quest’ultimo. La protagonista dà un taglio al proprio lavoro di infermiera e alla città in cui vive, ritrovando in sé e non nella quotidianità del lavoro e dei suoi meccanismi lo stimolo per portare avanti la propria vita.<br />
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Chi è il vero padre di Estefan? Poco a poco scopriremo che è un transessuale di nome Lola, il quale è irreperibile ma che, nel frattempo, ha ingravidato una suora, Rosa (Penélope Cruz), e le ha attaccato l’Aids. Il ciclo della maternità continua, ma in modo intrecciato ora, fra simulazioni e dissimulazioni che l’ambiente della prostituzione transessuale rende connaturato per cultura.<br />
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<br />
Abbiamo ora una suora ingravidata da un transessuale che ha contratto l’Aids. La vita è davvero strana a volte, e la situazione realistica. Almodóvar non fa leva su questa atipicità. La tratta invece come se si trattasse di una vicenda qualsiasi, con una ritmica appena più serrata di certa Nouvelle Vague.<br />
<br />
Il pregio sta nella concisione delle scene del film, che puntano meno l’attenzione su certi ambienti tipici dei suoi primi lavori o, cercando nella cinematografia nostrana più garbata, nel Monicelli di <i>Caro Michele</i> o <i>Speriamo che sia femmina</i>, in cui si indulge a una più forte caratterizzazione delle diversità d’estrazione sociale dei personaggi.<br />
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<br />
Qui, invece, è come se i personaggi si incontrassero senza stridore, là dove l’umano li accomuna, dove il femminile e l’amore li rende comprensivi gli uni degli altri.<br />
<br />
Ed è questo contrappasso d’amore nella tragedia, di perdita nel dolore che tiene sempre più uniti personaggi la cui biografia è tutt’altro che simile: l’attrice di successo lesbica e attempata, l’attricetta viziata, tossicodipendente e lesbica, la transessuale ex prostituta, l’infermiera ex madre, la suora che aiuta prostitute e tossicodipendenti e il cui padre malato non sa riconoscerla, la madre borghese che scopre che il proprio nipote è stato concepito da un transessuale, il transessuale che si scopre padre di un figlio e gli viene rivelato d’essere stato padre di un altro figlio ormai morto.<br />
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Vita e morte si incontrano in un cimitero. Lola, il padre di due Estefan (uno morto e l’altro appena nato), è malato di Aids e sa il suo destino.<br />
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A questo si aggiunga un altro intreccio della simulazione: il teatro. Un teatro, per giunta, sulla donna e sulla maternità, qual è <i>Un tram che si chiama desiderio</i> di Tennessee Williams. Quasi che la vita reale sia più fantasiosa dell’arte, le attrici dissimulano e simulano molto peggio delle transessuali, e spesso si fanno irretire e divertire dalle loro bugie.<br />
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La teatralità e il travestitismo transessuale si coniugano con un’attenzione, una sensibilità e un affetto verso le amicizie al punto da diventare una lezione di vita per chi ha ormai sgretolato in sé il senso di disponibilità e solidarietà verso gli altri, anche i propri familiari.<br />
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<br />
Il film è ricco di citazioni da film e drammi teatrali, in una maniera che appare agevole a chi non ne conosca le fonti, ma discretamente suggestiva di riflessioni ulteriori per chi conosca gli originali. Rifuggendo dalle situazioni smaccatamente grottesche, Pedro Almodóvar ci regala un film dolorosissimo, in cui, come nella vita reale, si indulge a ilarità e scherzi, senza perdere il filo conduttore della vicenda.<br />
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<br />
Con brevità scenica riesce a evidenziare le contraddizioni che spesso ci inducono a credere che una persona sia viva solo perché è presente. Il padre di suor Rosa che non la riconosce e le chiede quanti anni ha e quanto è alta in poche inquadrature dà la dimensione di come spesso la perdita riguarda anche i vivi.<br />
<br />
Un ottimo film per meditare su noi stessi e i nostri rapporti con gli altri, nella misura in cui sono diventati sempre più distaccati, quasi evanescenti, presi come siamo dai nostri automatismi quotidiani, dalle nostre urgenze, dai nostri interessi, di cui non sappiamo più neppure l’origine.<br />
<br />
<center><iframe allowfullscreen="" frameborder="0" height="276" mozallowfullscreen="" src="http://player.vimeo.com/video/37176329?title=0&byline=0&portrait=0" webkitallowfullscreen="" width="490"></iframe></center>
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<br />
[pubblicato su <i><a href="http://www.controluce.it/">Notizie in... Controluce</a></i>, n. XVIII/10, ottobre 1999, p. 21.] </div>
</div>Nicola d'Ugohttp://www.blogger.com/profile/15504174801531073127noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-844814479105817641.post-3590769163546964532009-08-26T17:37:00.024+02:002012-06-05T13:27:16.241+02:00Franck Landron: "Nudisti per caso"<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjHvnkyYRpAA8cnK50APuYdkxTp4lZ6iGBIuY7qAsmwy62Jwg-oo-N5rwP9YAC7I0P79BmFB_rJGzRqFFQpktCFaSEnbGQ8UUg8lB_lvC4CyxiHy9llf875BzBhyphenhyphenSYAMckm9X4cUn6wvIA/s1600/npc2.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjHvnkyYRpAA8cnK50APuYdkxTp4lZ6iGBIuY7qAsmwy62Jwg-oo-N5rwP9YAC7I0P79BmFB_rJGzRqFFQpktCFaSEnbGQ8UUg8lB_lvC4CyxiHy9llf875BzBhyphenhyphenSYAMckm9X4cUn6wvIA/s1600/npc2.jpg" /></a></div>
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Cosa accadrebbe se i vostri valori di convivenza sociale fossero messi seriamente in discussione, e vi trovaste a vivere il paradosso che tutto quello che vi hanno insegnato fin da piccoli potrebbe non interessare a nessuno? È quanto capita a Sophie (Barbara Schulz), protagonista di <i>Nudisti per caso</i> (2003), una commedia francese di Franck Landron sulle costruzioni/costrizioni mentali del punto di vista, dell’abitudine, della normalità.</div>
<br />
<div style="text-align: justify;">
La storia si incentra sulla disavventura di una madre con due bambini che, dopo l’acquisto vantaggioso di una bella casa, scopre a sue spese che si trova nel bel mezzo di un villaggio nudista. Scandalizzata, Sophie si vede oggetto del disprezzo della collettività locale, per la sua infrazione della regola, che è quella di andare in giro vestita. Le sono amici la bella Juliette (Magali Muxart) e il marito Gilbert (Simon Bakhouche), che abitano alla porta accanto e organizzano orge domestiche.<br />
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<br /></div>
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgIKUMwZUUSlLd3-5jULufPInBJyB1GwqFcIOQm8Ud7X00tlC1lo_ADPIOJmGCN6xolMnC4f0xey40xjKrWlSE1pcoETiQBYzE2dlVYymnbukQv6iIm_vUoQaGXo-NazSoRFFnhXA8QHYE/s1600/npc4.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgIKUMwZUUSlLd3-5jULufPInBJyB1GwqFcIOQm8Ud7X00tlC1lo_ADPIOJmGCN6xolMnC4f0xey40xjKrWlSE1pcoETiQBYzE2dlVYymnbukQv6iIm_vUoQaGXo-NazSoRFFnhXA8QHYE/s1600/npc4.jpg" /></a></div>
<br />
Tutti i tentativi di rivendere subito la casa falliscono, e anche i figli sembrano sfuggirle al controllo, come il piccolo Nono (Félix Landron) che va a fare la spesa senza slip per evitare di essere ridicolizzato. Il marito di Sophie, Olivier (Alexandre Brasseur), che, per non fare la solita vacanza dai suoceri, si era prodigato nell’acquisto della casa, la raggiunge nel fine settimana. Tutt’altro che dispiaciuto dalla situazione, Sophie lo ritrova fra i «marciatori», i guardoni che in gruppo seguono passo passo gli amanti dell’amore a cielo aperto, condividendo le vacanze con i turisti del sesso e i cultori dell’ambiente naturale.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br />
Sophie è un personaggio piccolo borghese in tutte le sue manifestazioni. Una bella trentenne insoddisfatta della propria vita, fedele per convenzione a Olivier, di cui ha un’idea sbagliata, che si scandalizza della sessualità altrui, che non è in grado di parlare di qualsiasi argomento. Schulz è bravissima nel restituirci questo candore, la rabbia inviperita di Sophie, la preoccupazione per i figli, l’incredulo imbarazzo del paradosso, l’impotente sofferenza per le repressioni dei propri istinti, la curiosità sessuale bacchettata dalle proprie convinzioni.</div>
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhEpTq4p7TU3WC5_9HEH_M7R4JHXO3clYSmBCg1AtuvGouoe_K-iZOhMm4Uhnqe_1Ef4yTsnNNifxHJ4IHJaBkRnWPHu7KXJ-s9O1aBpygodRdSSK_XUv-vfB_F7hN0Xd02WItisAehIXs/s1600/npc1.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhEpTq4p7TU3WC5_9HEH_M7R4JHXO3clYSmBCg1AtuvGouoe_K-iZOhMm4Uhnqe_1Ef4yTsnNNifxHJ4IHJaBkRnWPHu7KXJ-s9O1aBpygodRdSSK_XUv-vfB_F7hN0Xd02WItisAehIXs/s1600/npc1.jpg" /></a></div>
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Il titolo originale del film, <i>Les Textiles</i>, indica le persone vestite, che dovrebbero tenersi fuori del campo nudista, un dispregiativo rivolto a Sophie. Landron pone a confronto due 'normalità' affatto simili (dei <i>textiles</i> e dei nudisti), in cui le cose cambiano di nome, ma non la logica che, a dirla con Foucault, coniuga giudizi su nomi e cose. Con il suo linguaggio da Nouvelle Vague, il film parla di una differenza fittizia, inesistente, attraverso la vistosa diversità del nudo.</div>
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<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Landron si riallaccia alla grande tradizione ironica, deantropologizzante de <i>I viaggi di Gulliver</i> (1726) di Jonathan Swift, all’interesse di Luis Buñuel per la normalità che guarda con occhio severo la diversità, una volta che i ruoli siano ribaltati, come nella scena didattica de <i>Il fantasma della libertà</i> (1974), in cui i personaggi conversano amabilmente seduti su tazze del bagno, ma devono appartarsi per mangiare, secondo il tipico cambiamento di segno delle cose descritto dal semiologo Jurij Lotman.</div>
<div style="text-align: justify;">
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEislAynA7Ux_57xyh17K-XAUuldUrpw1w05IBnnb1UROMvUHkik8ms5dsRKXwQaOaFO1m-IfdDkib8mmAOSL4o93uwGE-3Jf7F-yx4K1vb9BFgbE7OXULn-o_ZJA7ymHyfh31JlesNgLb8/s1600/npc5.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEislAynA7Ux_57xyh17K-XAUuldUrpw1w05IBnnb1UROMvUHkik8ms5dsRKXwQaOaFO1m-IfdDkib8mmAOSL4o93uwGE-3Jf7F-yx4K1vb9BFgbE7OXULn-o_ZJA7ymHyfh31JlesNgLb8/s1600/npc5.jpg" /></a></div>
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Ciò che scandalizza Sophie è proprio il cambiamento di segno del 'simile', avvertito come minaccioso, non quello del 'diverso', di ciò che non ci riguarda, una volta relegato in una classe di appartenenza che non condividiamo: le vacanze di Sophie non sono quelle della donna occidentale in mezzo a una curiosa popolazione primitiva amazzonica.</div>
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhYEYMOcp93Jg5-GYIcwuGDpn_ZP87icoKfyzyiGxBK1-aJcyG-EpCINWOuvzZeaFAzjvP-Hi269SoTfvJo7ZudD5wPjJlKchPm7WjYgOM0KEIOHPdt7zkgQfP5eMCwKlM7lcjRyA-gOxA/s1600/npc7.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhYEYMOcp93Jg5-GYIcwuGDpn_ZP87icoKfyzyiGxBK1-aJcyG-EpCINWOuvzZeaFAzjvP-Hi269SoTfvJo7ZudD5wPjJlKchPm7WjYgOM0KEIOHPdt7zkgQfP5eMCwKlM7lcjRyA-gOxA/s1600/npc7.jpg" /></a></div>
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Qui i nudisti, con la puzza sotto il naso, sono quanto di più borghese ci possa essere. Come l’abbigliamento fu segno distintivo della borghesia fin dalle sue origini, l’esserne privi è l’abito di accettazione sociale nudista. Come l’imposizione dei propri costumi, atteggiamenti e interessi fu un tratto imprescindibile del consolidamento borghese, così gli atteggiamenti naturisti del film sono fondati su regole comuni da rispettare, sulla frequentazione amicale e sulla condivisione di interessi. Al garbo interessato dei vicini di casa fanno da contrappunto le ingiurie degli 'integralisti', che esternano la propria xenofobia, il timore di essere 'invasi' nel proprio territorio. Non è un caso che le scene in cui i nudisti rivendicano i propri principi siano ambientate in contesti smaccatamente di classe, come il supermercato e una bacheca di annunci commerciali.</div>
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<i>Nudisti per caso</i> ha come tema diffuso la <i>pornotopia</i>, l’invadenza della sessualità nella sfera del linguaggio sociale. L’abito informa la modalità dell’essere (il vestito di Issey Miyake, con il nudo muliebre de <i>La fonte</i> di Ingres stampato, sarebbe inadatto a Sophie secondo Olivier) e dell’agire (al nudista Gilbert può sembrare troppo piccolo borghese il naturale desiderio di avere figli da Juliette). Il rapporto voyeristico di Gilbert con la moglie, con la sua componente di feticismo virtuale antitetico al coito, è ribadito dal Leitmotiv iconografico dei seni di Juliette, esteticamenti posti in rilievo sotto gli occhi di Sophie e nostri, fino a perdere la funzione complementare materna, caratterizzandosi infine come seduzione saffica e traslazione virtuale per lo spettatore.</div>
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Per cui il naturismo viene caratterizzato dalla sua condizione di «mito» impraticato, ove le tendenze ideali dei nudisti, del tutto integrate nella concezione erotica contemporanea, sono orientate verso l’allontanamento dalle condizioni teleologiche delle generazioni primitive. In una delle rare scene dedicate alla natura, Landron spartisce gli spazi in due, con Sophie da una parte che passeggia sulla riva e il mare dall’altra, sotto un cielo violaceo, a commentare lo iato fra la vita dell’uomo e la natura. Infelice Sophie nella monotona vita parigina, sono altrettanto infelici le donne del villaggio Ventus, che fanno sesso più per compiacere gli uomini che se stesse.</div>
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Il tono complessivo del film è pacato, le scene, con i loro molti difetti tecnici, sono compresse da una bella tempistica del montaggio, che innesta i personaggi da un luogo all’altro senza soluzione di continuità, come tanti appunti diaristici di una settimana affatto stressante per Sophie e comica per noi, né più e né meno delle disavventure di Peppino De Filippo nell’episodio «Le tentazioni del Dottor Antonio» di Federico Fellini, tratto dallo zavattiniano <i>Boccaccio ’70</i>. Ma qui il finale è più inquietante, poiché Sophie e Olivier non solo si adattano, ma vengono stancamente inghiottiti nella 'normalità' del luogo, nell’opposizione borghese a un altro modo di essere borghesi, senza che la loro esperienza annunci una crescita culturale, che coniughi in un’idea complessiva più ampia i diversi modi di vivere degli uomini, scegliendosi il proprio. La loro è una tragedia in sordina, di piccoli uomini infelici compressi nelle maniere e nelle mode della società che li ospita, senza via di uscita.</div>
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[pubblicato su <i><a href="http://www.controluce.it/">Notizie in... Controluce</a></i>, n. XIV/9, settembre 2005, p. 27.]<br />
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<br /></div>Nicola d'Ugohttp://www.blogger.com/profile/15504174801531073127noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-844814479105817641.post-23615824852907774562009-08-16T17:17:00.033+02:002012-04-11T12:03:29.239+02:00I pornografi Althea e Larry Flynt: il tema della pornografia nel film di Miloš Forman<div style="text-align: justify;">
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgzMfhCez1nup4yRK6PbLpG7yPjY8Q6xQph9_gZIhdqopTbchpoLNRsifaPetKDQnZMcDe3KUc8rdoDhd6ByrGGK_g-IKq9ojfGn_bTjC1VZw85iuC9v6ECCGdLkkfxRrita4PcP_AT750/s1600/movieposter.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgzMfhCez1nup4yRK6PbLpG7yPjY8Q6xQph9_gZIhdqopTbchpoLNRsifaPetKDQnZMcDe3KUc8rdoDhd6ByrGGK_g-IKq9ojfGn_bTjC1VZw85iuC9v6ECCGdLkkfxRrita4PcP_AT750/s200/movieposter.jpg" /></a></div>
<i>Larry Flynt - Oltre lo scandalo</i> (1996) di Miloš Forman è un film che tratta il tema della pornografia. Non si tratta del mondo del porno, della sua contestualizzazione, non si seguono le vicende della produzione pornografica più pruriginosamente esibita. Non è la storia dei film hard né il dramma di modelli o modelle prese nel meccanismo di produzioni sordidamente preorganizzate.<br />
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Se la pornografia è la rappresentazione sessuale invisa in una data collettività, qui si tratta di narrare l'inimicizia verso <a href="http://it.wikipedia.org/wiki/Larry_Flynt">Larry Flynt</a> da parte della collettività, attraverso le sue manifestazioni: politica, giuridica, dissenso privato (i vari movimenti politici d'ispirazione religiosa che vediamo nel film, i magistrati, il sicario che spara a Larry Flynt).<br />
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Non a caso il titolo originale del film è <i>The People vs. Larry Flynt</i>, ossia "il Popolo (americano) contro Larry Flynt", secondo un modo di intestare le pratiche processuali in America. Il vero scontro non si svolge essenzialmente nelle aule di giustizia, si svolge piuttosto nelle strade, nei club e nelle abitazioni private, nei luoghi pubblici e nei mezzi di informazione.<br />
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Perché un oggetto sia pornografico necessita di questi elementi essenziali da tenere sotto osservazione: occorre sempre che sia una rappresentazione, qualcosa che sta al posto di qualcos'altro, che non è la cosa stessa. Questo è uno dei motivi per cui tanti linguisti, semiologi e studiosi di arte e letteratura si sono interessati a questo tema: ne va di mezzo il loro campo di interesse specifico.<br />
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Tale rappresentazione deve contenere l'idea di sessualità, ossia il riconoscimento di un attributo che offre un dato culturale, giacché non si tratta del sesso in quanto elemento biologico ma della sua interpretazione individuale, la quale può essere più o meno condivisa da altre individualità. Il terzo elemento riguarda l'essere inviso, osteggiato, combattuto, negato attraverso vari meccanismi di opposizione esternata. È il sesso in quanto tale che deve essere inviso? No, la sua rappresentazione, la sua cultura, il suo modo di essere raccontato, espresso, rappresentato.<br />
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Il quarto elemento è la collettività, il gruppo di persone che la formano, non importa quanto questa sia estesa. Può trattarsi di una nazione o di dieci, oppure di una comunità ristretta di persone (due o tre basterebbe, giacché il meccanismo fondamentale dell'opposizione sarebbe lo stesso). L'importante è individuare quanto questa è circoscritta, di che collettività si tratta. Inoltre, non è necessario che si arrivi a una collettività che si opponga compattamente, nella sua totalità. Non si tratta neppure di una maggioranza della collettività, ma che vi sia all'interno, "nella" e non "dalla" collettività, un'opposizione avvertita immaginativamente da altri membri del gruppo. Ed è questo uno dei motivi per cui tanti sociologi, e non solo antropologi e filosofi, si sono dedicati alla pornografia e alle sue manifestazioni.<br />
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Rappresentazione + sessualità + invidia + collettività (parziale o totale) formano la grammatica di qualunque discorso sulla pornografia. Eliminando o sostituendo uno solo degli elementi dell'equazione avremmo altri esiti e altri situazioni. Sessualità + invidia + collettività (parziale o totale) non sarebbe già più pornografia, ma l'opposizione a un modo di vivere e non di manifestare il pensiero. Rappresentazione + invidia + collettività (parziale o totale) riguarderebbe una miriade di sfere della vita dell'uomo che non necessariamente hanno a che fare con la sessualità.<br />
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Così la storia di Larry (Woody Harrelson) non poteva che essere quella di un uomo che lotta contro altre posizioni che fanno della sessualità la materia del contendere. Non si tratta del sesso, non ci si spartisce quello nella vita e nel film, si tratta invece dell'idea del sesso, della sua sfera ideologizzata, socializzata, politica. La sessualità come idea e rappresentazione, la sua gestione, la sua precettistica e manualistica, la sua imposizione esterna, il suo ammiccamento erotico, che ne fanno nei millenni un terreno di scontro, di ignoranza e di potere, come ha cercato di raccontare Michel Foucault nei volumi <i>La volontà di sapere</i>, <i>L'uso dei piaceri </i>e <i>La cura di sé</i>, oppure di pretesto politico, come nella poesia "Un parere in merito alla pornografia" di Wisława Szymborska, Premio Nobel per la letteratura, poeta polacca straordinariamente attenta all'influenza della politica su tutte le sfere della vita individuale.<br />
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Sotto questo aspetto, Larry Flynt è un personaggio politico, che si muove all'interno di un contesto storico e sociale che lo precede, che egli avverte e nel quale cerca di proporre le sue idee. Le quali, come vediamo nel film, non sembrano essere del tutto condivise. Egli, nel suo ideologizzare la sessualità, incontra consensi (per esempio, la religiosa Ruth Carter Stapleton, sorella del presidente americano Jimmy Carter, interpretata da Donna Hanover) e dissensi (per esempio, il predicatore televisivo <a href="http://it.wikipedia.org/wiki/Jerry_Falwell">Jerry Falwell</a>, interpretato da Richard Paul).<br />
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Non è una questione di essere religiosi o meno. Le religioni hanno un loro erotismo, che esibiscono attraverso il loro raccontare la sessualità, farne materia precettistica, magari attraverso gli strumenti di una scienza che ne sa poco a riguardo, che viene screditata in seguito. Non si tratta della funzionalità fisiologica, ma del trarre conclusioni sull'uomo (un aspetto essenziale dell'uomo) senza averne una nozione che prescinda dalle contingenze contestuali, storiche, ideali, che fanno della sessualità rappresentata una costruzione aleatoria per la conoscenza. Larry Flynt, con il suo proporsi politicamente, non fa diversamente da quello che fa il suo antagonista Falwell: entrambi vogliono dire la loro sulla sessualità, raccontarla in una maniera che non si ferma al pensiero privato, ma entra nella sfera pubblica del dibattito già esistente in materia.<br />
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Miloš Forman racconta, con la sua regia misurata e un ritmo incalzante ma sempre contenuto, senza orpelli che possano farlo fuorviare dalla storia di un uomo nella sua lotta contro i suoi avversari, come può maturare un conflitto sulla pornografia. Se si vuole la scelta del taglio dato al soggetto dagli sceneggiatori e dal regista è quella dell'intellettualismo razionale, un modo per far riflettere su personaggi di cui non si condividono le idee.<br />
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Nell'operazione di difesa del personaggio si costruisce un eroe moderno, attraverso la descrizione dell'infanzia povera, dell'affetto verso i familiari e gli amici, della fedeltà alle proprie idee, anche se possono apparire sbagliate. Mi sembra che il personaggio più rappresentativo della regia che sta dietro la storia è impersonato dal giovane avvocato di Flynt, Alan Isaacman (Edward Norton). Questo personaggio, che non condivide lo scanzonato modo di proporre vignette e fotografie che hanno per oggetto la sessualità, è interessato alla questione dei diritti civili, della libertà, che sarà poi il culmine del film, con la celebre sentenza (non solo cinematograficamente) della Corte Suprema degli Stati Uniti, e che pone un punto decisivo sulla questione di libertà d'espressione e di stampa riguardo al tema della sessualità.<br />
<br />
La sceneggiatura, in effetti, era stata inviata dagli autori a Oliver Stone perché la prendesse in considerazione per un suo film, dato che Stone ama affrontare nei suoi film i diritti civili e la democrazia. Ma Stone ritenne di passare lo scritto a Forman, il quale ne rimase entusiasta per la movimentata e composta fluidità del testo e la pertinenza dell'intreccio.<br />
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Il film, del 1996, si inserisce nel dibattito avviato con sempre maggiore determinazione da Catherine MacKinnon e Andrea Dworkin, le quali propongono di eliminare la libertà di espressione prevista dalla Costituzione americana (1° Emendamento), e di far passare una legge che prevede, secondo una sorta di decalogo, il divieto di rappresentare la donna in una molteplicità di situazioni. Secondo tale intento, i film di Fellini, di Chaplin, di Totò dovrebbero essere vietati per legge, senza contare <i>La Divina Commedia</i>, i drammi di Shakespeare, la Bibbia. Il loro punto è che il mondo è una pornotopia, ossia un luogo in cui già parlare della donna la rende oggetto sessuale del maschio. Il che, se è pur vero come principio, non propone alcun incontro fra il maschio e la femmina, ma un totalitarismo che ha fatto ritenere, a torto, che l'estremismo fanatico di MacKinnon e Dworkin scaturisse da posizioni di destra, mentre le loro posizioni si fondano su riflessioni marxiste, ossia di sinistra.<br />
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In <i>Larry Flynt</i> non si punta l'attenzione su questo contesto, e si evita così il rischio di centrare il discorso sulla pornografia anziché sui diritti d'espressione, né si parla dei danni della pornografia, anche solo per negarli. Forman descrive il meccanismo della lotta fra uomini nella collettività (il 'popolo americano' del titolo) attraverso un uomo che ci piace per la lealtà e ci dispiace per l'esasperazione, ma ci piace ancora per la determinazione e l'amore che manifesta. Larry non utilizza mai il proprio potere economico, che è cospicuo, al fine di vendicarsi dei torti subiti dagli amici. Li perdona, considerandoli parte importante della sua vita, considerando inoltre le debolezze e i difetti degli uomini in genere. Egli è un leader, come dimostra già subito lo spezzone iniziale di Larry bambino che distilla alcool.<br />
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Ma per i propri nemici, quelli da cui si vede attaccato per l'esternazione delle sue idee, non dimostra alcuna pietà, ricorrendo a mezzi non violenti, anche se psicologicamente pesanti, come la finta pubblicità del Campari accompagnata dalla storia, del tutto inventata, del rapporto incestuoso del reverendo Falwell con la madre in un gabinetto pubblico. Erano anni che Althea desiderava l'attacco a Falwell, ma questo attacco non viene subito, matura nel tempo, in relazione agli accadimenti che restano fuori della vicenda narrata. Fino alla pubblicità del Campari, Falwell è solo il nome di un personaggio famoso disprezzato da Althea.<br />
<br />
Se per Larry la sessualità ha un valore politico, per la moglie Althea (straordinariamente interpretata da Courtney Love) si tratta di divertimento, di libertà, di arte. È il mondo della fantasia che la muove, che le attraversa il corpo come un nervo eccitato, da quando faceva lo strip-tease a quando diventa redattrice di Hustler, il giornale che porta tanta fortuna e tanti danni al protagonista. Althea è un personaggio fondamentale per la rappresentazione della libertà dello spirito artistico, senza ideologia, e per raccontare le conseguenze che un certo modo di fare arte può causare a uno spirito libero. Che questo modo di fare arte non sia l'arte nobile del dipingere o dello scolpire è un modo intelligente per evitare qualunque interferenza delle connotazioni di arte allo spirito artistico.<br />
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Altro elemento essenziale in questo senso è l'estrazione disperata di Althea, orfana della famiglia, sterminata dal padre prima di suicidarsi. Le sue T-shirt mostrano la scritta «Chic» e «Love is baby soft» (L'amore è soffice come una bimba), quasi dei graffiti infantili, mentre quelle di Larry riportano «Christ was an anarchist» (Cristo era un anarchico), «I wish I were a black» (Vorrei essere stato un nero), «Fuck this court» (Affanculo questa corte). Mentre Althea vuole pubblicare una vignetta erotica del Mago di Oz, Larry pensa di introdurre nei temi trattati dalla rivista la religione, proponendo accoppiamenti di Adamo ed Eva, oppure di difendere la donna a suo modo, rappresentandola in copertina dentro un tritacarne con la scritta: «Non siamo più disposti a trattare le donne come pezzi di carne.» O, ancora, si procura e fa avere all'emittente televisiva Cbs un video che riprende l'Fbi mentre compie un arresto illegale piazzando droga nelle mani della sua vittima.<br />
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Anche in questo caso, il video è una rappresentazione, la rappresentazione della violenza del potere contro cui aveva già puntato il dito anni prima, davanti a una folla, all'aperto, alternando su un maxischermo le immagini di nudi maschili e femminili a immagini di genocidi, violenza accanita contro i manifestanti, gente torturata, il fungo dell'esplosione atomica. Anche qui il regista non ci dice che Woody Allen e altri noti personaggi pubblici avevano sottoscritto la manifestazione dell'Unione per una Stampa Libera.<br />
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Per tutto il film si fanno vivere i personaggi nelle vicende dell'America dall'inizio degli anni settanta, con il boom dei sex-shop, degli spogliarelli nei night-club e dei cinema hard (in quegli anni sorge il quartiere a luci rosse di New York, nel bel centro di Manhattan), senza però dirne nulla, mentre del passaggio dalla presidenza di Jimmy Carter al rigorismo reaganiano c'è solo una scena in cui se ne parla esplicitamente, senza accennare, per esempio, che l'amministrazione Reagan istituì un'apposita commissione sui danni recati dalla pornografia, il cui esito (il Rapporto Mitchell) fu quello di non saperne dimostrare la nocività e neppure di riuscire a definirne il campo di ricerca.<br />
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La storia si muove all'interno di momenti della politica americana, e l'interesse fondamentale resta quello della libertà d'espressione in uno dei campi d'azione dell'uomo più controversi. Ma tutto deve essere narrato attraverso la vita del protagonista, non come una lente d'ingrandimento su di lui. Non si deve ingigantire l'evento, ma raccontarlo attraverso l'uomo, Larry appunto, passo dopo passo, dramma dopo dramma. L'orgoglio d'essere americano vale per Flynt come per Falwell, vale per Althea come per chiunque altro. La mitizzazione del personaggio risonante, dell'uomo di potere, come Falwell, deve avvenire per gradi, senza che il pubblico venga incantato dalla maestosità del potere. Ogni potente, dice Forman, ha una disponibilità maggiore di risorse, ma nessuna intelligenza eccezionale.<br />
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Il regista fa scorrere le scene una dopo l'altra, dalla concitazione alla quiete, dalla tensione al rilassamento, dai luoghi chiusi ai luoghi aperti, dal giorno alla notte, per opposizioni, senza tenere mai a lungo la stessa atmosfera, dando respiro alla vicenda. Il sapore che ne deve scaturire è quello di una quotidianità di persone qualunque che fanno emergere una grande storia d'amore, una delle più belle narrate dalla macchina da presa negli ultimi decenni. È una storia d'amore pulita, fatta di contrasti che sottendono un accordo più grande, un'unione che non si mette mai in crisi, un attaccamento viscerale e un rispetto reciproco che superano qualunque minaccia che dall'esterno potrebbe rovinare il legame. La storia di Althea, lo si vede alla fine del film, è drammatica, certo, ma altamente simbolica. Althea rappresenta la donna vittima della Storia, o la biografia di una donna segnata dalla vita.<br />
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Il valore simbolico di Althea è anticipato nella scena 193 del film. Si va da Betty Boop alla televisione (il popolarissimo fumetto e cartone animato americano è il primo che fu censurato negli Stati Uniti) ad Althea fra le braccia di Larry nella vasca da bagno, a formare una Pietà sessualmente ribaltata (lui piangente che tiene lei morta fra le braccia). Fra la prima inquadratura e l'ultima Forman descrive con piccoli indizi la "morte per acqua" e il ruolo della donna nella Storia. Betty Boop, un tempo censurata, è ora ridente al pianoforte e amata anche dai bambini americani. Althea, malata, si siede sulle ginocchia di Larry costretto alla sedia a rotelle e lo chiama «papà». Poi si parla scherzosamente di farsi ibernare e scongelare nel 3000. Poi Althea va nella stanza da bagno.<br />
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Quando l'acqua ne fuoriesce e Larry si precipita in bagno c'è il fotogramma (l'inquadratura 18 della scena) della nudità senza orpelli, umana di Althea. L'inquadratura 193.18 rappresenta uno spazio che non ha tempo né luogo: è un ravvicinato che ci mostra quasi l'intera figura della ragazza senza lo spazio circostante, in una vasca da bagno nera che potrebbe essere qualunque altro luogo equoreo (un lago, una piscina, un sarcofago, una cisterna ecc.).<br />
<br />
Non ci sono orpelli per una simile morte, né sottovesti, né magliette, né collant, neppure una cavigliera, un braccialetto o un anello, nulla che sia il segno di un'epoca, di una moda, di un look, di un'opinione, di un pensiero, di un'arte. È un'immagine che non palesa alcuno stile d'epoca (qualunque essa sia). Quell'immagine è fuori della cronaca e dentro l'umanità, all'interno della questione nuda e cruda di una bellezza che è diventata vittima purificata, come la rosa bianca (simbolo d'amore eterno) che Larry deporrà sulla sua tomba nella scena successiva. Che sia una vasca da bagno lo sappiamo dalla giustapposizione dell'inquadratura 193.18 alle altre, che sia una donna nuda e senza segni d'artificio umano no, ci basta solo quella. E sulla figura trascorre, come l'eterno flusso di un fiume, il movimento superficiale di una diafana pellicola acqua, che come tale può specchiare qualunque cosa (specchia infatti una lampada del bagno, ma dall'inquadratura in sé non possiamo saperlo, ne notiamo solo il riflesso, come di un sole, di un astro, di una torcia accesa). La vittima d'espiazione delle pene del mondo è lei, e l'iconografia è quella della Pietà.<br />
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L'America era, nella pittura del Seicento, una donna fra le acque. Nella letteratura americana la "morte per acqua" è quella delle ragazze perdute, abbandonate, delle vittime di un mondo che ne fa un uso strumentale, schiacciate dagli interessi maschili. Bastano poche inquadrature a Forman per rappresentare tutto questo, per porre la sessualità di nuovo al centro della vicenda. Ogni dettaglio annuncia, senza tronfia retorica, la conclusione del film. I simboli ci sono, ma non sono posti al centro dell'attenzione, perché anzitutto si tratta di raccontare il dramma dei personaggi. Ma è già il preludio della scena finale.<br />
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Mentre Falwell proclama in televisione la colpevolezza di chi si prende l'Aids, Larry è fuori di sé. Chiama l'avvocato Isaacman e lo portano in causa davanti alla Corte Suprema. L'unico modo perché Larry sia parte dell'America tutta è di smetterla di attaccare le istituzioni, deve chiudersi la bocca e lasciare fare all'avvocato. Finalmente, in omaggio alla memoria vivida di Althea, se la tappa.<br />
<br />
Nella sequenza finale tutta la simbologia emerge di prepotenza. È una scena da brivido, poetica, di una malinconia ebbra di ricordi. Vi sono due sonori: lo "Stabat Mater" di Dvořák e la voce di Althea. Il primo è sul testo di Iacopone da Todi, un misogino; la seconda viene dal televisore: Larry guarda una vecchia videocassetta di lui e Althea che ballano, poi di Althea che balla da sola in un prato e parla a Larry e si spoglia per Larry. Tra antichità e presente, la scena incomincia con l'inquadratura di una Madonna Addolorata in giardino, una statua: è la donna sofferente della cultura del vecchio Cristianesimo. Poi la macchina da presa –che serpeggia indietro e in avanti a cogliere l'esterno e gli interni della villa di Larry– inquadra una piscina vuota e desolata, con fiori e foglie secche nel fondo: è la "morte per acqua" avvenuta da tempo, la piscina abbandonata, in disuso.<br />
<br />
Poi la casa ricca e non vissuta presenta un ritratto di Althea: è un dipinto d'alta borghesia americana, di perbenismo, di integrazione e successo sociale. Poi Althea simpaticamente folle come sempre, nel video, che si toglie la maglietta e inizia a volteggiare nuda. «Non diventerò mai vecchia. Tu diventerai vecchio e grasso,» dice ridente, riprendendo una vecchia battuta che si scambiava con Larry nei momenti più difficili della loro vita insieme.<br />
<br />
Due mondi a confronto: l'iconografia della donna sacrificata a soffrire e quella della donna libera. Due voci, il bellissimo coro che canta «Stava la Madre addolorata» e Althea che scherza e gioca. In mezzo quel dipinto di perbenismo e ricchezza per le scale della casa. Forman sovrappone il discorso sulla pornografia alla questione che le è più propria: non i film, gli spogliarelli e le riviste ritenute pornografiche, che neppure le commissioni governative di Canada, Usa e Regno Unito sono riuscite a collocare in un terreno sicuro di ricerca sull'uomo, ma l'uso strumentale della sessualità e il coinvolgimento di miliardi di uomini nelle costrizioni di un vergognoso modo di raccontare la vita degli altri, di imporre le regole, di determinare ciò che è buono e ciò che non lo è. Questa scena è interrotta solo dalla sentenza della Corte Suprema, che recita:<br />
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La libertà di esprimere le proprie idee non è solo un aspetto della libertà individuale, ma è essenziale per la ricerca della verità e per la vitalità della società tutta. Nel contrastato ambito delle libertà democratiche molte cose ispirate da motivi non del tutto ammirevoli sono protette nondimeno da Primo Emendamento.</blockquote>
<br />
Attraverso la storia di Larry Flynt, Forman va a toccare il cuore del rapporto fra collettività e negazione delle idee altrui, ponendo la sessualità al centro di una vicenda storica e umana che di volta viene chiamata pornografia, opera d'arte o documento. Gli elementi fondamentali che costituiscono qualunque approccio al tema della pornografia sono in <i>Larry Flynt</i>. E non riguardano certo il commercio di materiale che, di volta in volta, viene ritenuto osceno. La vittima del perbenismo di questa vicenda di lotta sulla sessualità, racconta Forman, resta comunque una donna.<br />
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[<i> puoi scaricare e leggere il saggio nel formato editoriale originale cliccando su: </i><a href="http://www.keepandshare.com/doc/2582875/larry-flynt-oltre-lo-scandalo-pdf-february-8-2011-2-46-am-193k?da=y">scarica PDF</a> ]<br />
<br />
[pubblicato su <i><a href="http://www.controluce.it/">Notizie in... Controluce</a></i>, n. IX/3, marzo 2000, pp. 12-15.]<br />
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Bibliografia:<br />
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<ul style="text-align: justify;">
<li> <span style="font-variant: small-caps;">Alexander, Scott e Larry Karaszewski</span>, <i>The People vs. Larry Flynt: The Shooting Script</i>, Newmarket Press, New York 1996. </li>
<li><span style="font-variant: small-caps;">Arcand, Bernard</span>, <i>Il giaguaro e il formichiere. La pornografia dal mondo primitivo alle società contmporanee: il punto di vista di un antropologo</i>, Garzanti, Milano 1995. </li>
<li> <span style="font-variant: small-caps;">Coetzee, J. M.</span>, <i>Pornografia e censura</i>, Donzelli, Roma 1987. </li>
<li> <span style="font-variant: small-caps;">Dworkin, Andrea e Catharine MacKinnon</span>, <i><a href="http://www.nostatusquo.com/ACLU/dworkin/other/ordinance/newday/TOC.htm">Pornography and Civil Rights: A New Day for Women's Equality</a></i>, Organizing Against Pornography, s.l. 1988. </li>
<li> <span style="font-variant: small-caps;">Foucault, Michel</span>, <i>Storia della sessualità 1. La volontà di sapere</i>, Milano, Feltrinelli, 1978. </li>
<li> --, <i>Storia della sessualità 2. L'uso dei piaceri</i>, Feltrinelli, Milano 1984. </li>
<li> --, <i>Storia della sessualità 3. La cura di sé</i>, Feltrinelli, Milano 1985. </li>
<li> <span style="font-variant: small-caps;">Hamill, Pete</span>, "Woman on the Verge of a Legal Breakdown", <i>Playboy Magazine</i>, January 1993, Vol. 40, No. 3, pp. 138-140 e 184-189. </li>
<li> <span style="font-variant: small-caps;">MacKinnon, Catharine</span>, <i>Feminism Unmodified</i>, Harvard UP, Cambridge 1987. </li>
<li> U. S. Supreme Court, <i><a href="http://caselaw.lp.findlaw.com/scripts/getcase.pl?court=US&vol=485&invol=46">Hustler Magazine v. Falwell, 485 U. S. 46 (1988), No. 86-1278</a></i>, Washington DC 24 February 1988.</li>
</ul>
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<br /></div>Nicola d'Ugohttp://www.blogger.com/profile/15504174801531073127noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-844814479105817641.post-18060643182561573792009-08-16T16:57:00.019+02:002013-04-11T02:24:30.271+02:00John Duigan: "Gioco di donna"<div style="text-align: justify;"><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjeuxM5TvzY47k_jDYmGaJCHFuw-CyQdZRU1J3BnzGP8n191fe-sWlo-8lG6a7WVXbuXlDfcnetppbnq5p9hT9miqmIrrntnzDHXxD1A3mUal_yclgwclQMPUHbw5yhz0XpBTqkx0M_HJs/s1600/gioco_di_donna.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjeuxM5TvzY47k_jDYmGaJCHFuw-CyQdZRU1J3BnzGP8n191fe-sWlo-8lG6a7WVXbuXlDfcnetppbnq5p9hT9miqmIrrntnzDHXxD1A3mUal_yclgwclQMPUHbw5yhz0XpBTqkx0M_HJs/s200/gioco_di_donna.jpg" id="blogsy-1365639825027.7893" class="" alt="" width="147" height="200"></a></div>
<p>In <em>Gioco di donna</em> (2004) di John Duigan, il protagonista, l’irlandese Guy Malyon (Stuart Townsend), racconta la propria storia d’amore con una ricca ragazza franco-americana, Gilda Bessé (Charlize Theron), secondo un modello che trova una sua perfezione formale in <em>Addio alle armi </em>(1929) di Ernest Hemingway. A differenza di <em>Angeli perduti </em>(1995) di Wong Kar-Wai, qui il protagonista esce dalla vicenda ancora vivo, come ci si aspetterebbe in questo tipo di narrazione. E anche qui, come nel romanzo di Hemingway, la vicenda d’amore si intreccia alla guerra, che è motivo di separazione e di ritrovamento della donna amata.</p>
<p>Il titolo originale del film suona 'La testa fra le nuvole' (<em>Head in the Clouds</em>), senza alcuna allusione ai 'giochi di donna' di Gilda, che di fatto non hanno nulla di vanesio: attraverso la propria carne, la danza, il cinema, la fotografia, l’arte ecc., Gilda enuncia continuamente il Vangelo della vita mondana e caccia dal tempio dell’amore con la verga la bestia sadica che ha profanato il corpo dell’amata Mia (Penélope Cruz). Fin da ragazzina la protagonista mostra una spiccata capacità interpretativa dei comportamenti umani e un dominio psicologico sugli altri.<br>
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Il tema portante del film è la predestinazione dell’evento doloroso cui Gilda è destinata al trentaquattresimo anno d’età, annunziatole dalla chiromante. La data coinciderà con l’uccisione dell’eroina quale collabo amante di un ufficiale nazista (era invece una spia antinazista), ma, anche, con il D-Day, che, secondo un’ottica occidentale, costituisce, con lo sbarco in Normandia, la resurrezione della libertà dall’impero del male hitleriano, di cui Gilda, innocente, è il capro espiatorio.
<p>La giovane cerca di godere la vita con intensità e spregiudicatezza in vista di quel giorno, senza festeggiare i propri compleanni: è uno spirito libero, maestra di vita, che, accettato il dolore futuro come una sorta di Cristo su cui peseranno i peccati del mondo (il nazi-fascismo), non vive la nostalgia e la paura del dolore, ma solo il dramma dell’imminente sacrificio; al tempo stesso, di lei non vediamo l’intimità, ma la ricostruzione esterna che ne fa il narratore, amante e amico Guy. Theron assume le vesti di una donna Cristo, evitando di incarnare l’iconografia della Madonna.</p>
<p>La predestinazione sottende la storia, quindi la guerra civile spagnola e la seconda guerra mondiale sarebbero necessarie né più e né meno dei «geni malati» di Gilda, che contengono la follia del padre libertino e della madre suicida. Un film non è un’opera di filosofia, né si conclude con la stesura del soggetto. Visto che la colonna portante del film è la predestinazione di Gilda, andava costruito un mondo di immagini, un intreccio avvolgente, un’esemplificazione di episodi che ce la illustrassero nella vita reale (di cui il film si fa figura).</p>
<p>Sotto questo profilo, la sceneggiatura di <em>Gioco di donna</em> è arenata allo stato di bozza di un lavoro che richiedeva maggiori sforzi di ricerca e di sintesi, e la predestinazione costituisce una zeppa della storia d’amore.</p>
<p>Con un primo tempo ambientato tra Francia e Inghilterra, e un secondo tempo in cui si aggiunge l’episodio spagnolo, in un arco sequenziale che va dagli anni venti al 1945, il film avrebbe avuto modo e luoghi per sviluppare le proprie tesi, se non fosse stato meramente pretenzioso, al punto da diventare un polpettone generico. La vita universitaria di Cambridge non è diversa dalle tante situazioni collegiali statunitensi, la Parigi bohémienne sembra piuttosto la New York di Andy Warhol, la guerra civile spagnola e la liberazione di Parigi non si vede che abbiano di diverso da altre guerre novecentesche.</p>
<p>I temi della prima parte del film non sono sviluppati esteticamente nella seconda, che sembra l’inizio di un film di guerra. Le ambientazioni soffrono di una mancanza di carattere, per cui non si avverte nulla di ginnico nella palestra dove Guy si esercita alla boxe: la scena potrebbe essere girata in qualsiasi altra situazione. Lo stesso dicasi per altre scene del film, che non sono in grado di restituirci l’aura ambientale.</p>
<p>Il personaggio di Guy, benché costituisca l’io narrante, non presenta un’adeguata introspezione psicologica. Di fatto, assumendo la figura dell’evangelista che testimonia della vita di Gilda, Townsend avrebbe dovuto farsi carico dell’espressività necessaria per far capire come Gilda agisca sullo spirito di Guy. Anche Penélope Cruz ha poco spessore, e pare uscita da una telenovela.</p>
<p>Meglio Theron, che esprime un ampio e articolato ventaglio di sentimenti, dall’allegrezza allo stupore, dal torpore meditativo alla rabbia, dall’attrazione alla ripulsa, dall’amore all’odio, dal piacere al dolore, dall’amarezza all’esaltazione. Le azioni di Gilda vengono giustificate da sfaccettature dell’espressività che informano della giusta ambiguità i suoi sentimenti per Guy, che non è in grado di capirla allo stesso modo in cui lei capisce lui. Al punto che Theron suscita rare punte d’emozione, benché sia assistita più dalla truccatrice Shane Paish e dal fotografo Paul Sarossy che non dalla sceneggiatura di John Duigan, abile, quest’ultimo, nel proporre battute serrate, ma meno efficace nell’economia simbolica del film. Basti pensare a quante età, situazioni psicologiche e look sono assunti da Gilda, per rendersi conto delle difficoltà di mantenere unitario il personaggio.</p>
<p>Nel suo complesso, <em>Gioco di donna</em> è poco entusiasmante, a parte la fotografia di Sarossy e la recitazione di Charlize Theron, chiamata, nel secondo tempo, ad alcune scene drammatiche in cui il volto gioviale dell’attrice assume una maschera di sofferenza, tormento e dolore che evoca le prove più difficili del dramma shakespeariano, senza averne sulle labbra il testo.</p>
<p>[pubblicato su <em><a href="http://www.controluce.it/">Notizie in... Controluce</a></em>, n. XIV/8, agosto 2005, p. 20.]</p>
<div class="separator" style="text-align: center;"><iframe title="YouTube video player" class="youtube-player" type="text/html" width="500" height="305" src="http://www.youtube.com/embed/nv5jKdnUrA8" frameborder="0" allowfullscreen=""></iframe></div>
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgKryabou_6SiV6UhMX4vE-6LS_hTWvuMjeAXnQJv67uANLWPWAGOGJPkO7bv34H84FaN8MIb7S9GjfPWA3VNiYuanXVQnR3Om5h6AMoZ563-YxnOXavLAfXikRx66siLwMg_r-3T1AC10/s1600/chocolat1.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgKryabou_6SiV6UhMX4vE-6LS_hTWvuMjeAXnQJv67uANLWPWAGOGJPkO7bv34H84FaN8MIb7S9GjfPWA3VNiYuanXVQnR3Om5h6AMoZ563-YxnOXavLAfXikRx66siLwMg_r-3T1AC10/s200/chocolat1.jpg" /></a></div>
A Lansquenet, un villaggio del Nord della Francia, alla fine degli anni cinquanta, la <i>tranquillité </i>è un valore che accomuna gli abitanti. Custode del valore è il sindaco, ultimo discendente di una nobiltà che, per generazioni, ha fatto rispettare leggi e costumi. Garante metafisico della giustezza del valore è il Cristo, che accomuna tutti nel luogo ideale: la chiesa.<br />
<br />
Che cosa insegna il buon Dio? Di questo si sa poco. I valori cristiani e la sua precettistica cambiano di luogo in luogo, di tempo in tempo. Per secoli si sono disputate guerre, vergati scritti, elevati alla gloria della santità e bruciati libri e teologi. Ma per l’ultimo conte di Reynaud, nonché sindaco di Lansquenet (Alfred Molina), la dottrina ha una sua precettistica, la Parola una sua interpretazione inequivocabile.<br />
<br />
Lungi ormai dall’essere il feudatario che faccia la legge e la faccia anche rispettare, il conte, a differenza dei suoi antenati, deve limitarsi a fare applicare i costumi e la legge ultraterrena sulla terra in una maniera antiquata, ma certo consona alla nuova epoca democratica: anche al giovane prete appassionato della musica rock. Siamo infatti alla fine degli anni cinquanta, non nel Medioevo, e il sindaco lo sa: la legge è quella della Repubblica Francese e la religione non è poi così in voga, se è vero che sua moglie se ne è andata a Venezia e non sembra abbia intenzione di tornare alla religiosa tranquillità di Lansquenet.<br />
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Ci sono altri modi di vivere la vita, sempre nel rispetto della tradizione. Così giungono in paese Vianne (Juliette Binoche) e la figlioletta Anouk (Victoire Thivisol). La loro storia è molto diversa: sono delle girovaghe, pare che non si fermino per molto in un posto. La loro missione è quella di far conoscere i poteri catartici della <i>cioccolata</i>. Vianne prende in affitto un locale e ne fa una cioccolateria.<br />
<br />
Siamo nella Quaresima, periodo dei digiuni, in cui i dolci sono vietati, se non dalla legge francese, almeno da quella divina. Così la pensa il sindaco, un uomo probo che, nonostante le sofferenze del digiuno, è il primo a dare il buon esempio. Dopo aver fatto visita alla donna e aver cercato di dissuaderla dall’aprire una simile attività in paese, deve arrendersi all’evidenza che Vianne fa di testa sua e mina la tranquillità del villaggio, portando al peccato della gola i suoi abitanti.<br />
<br />
Si dà il caso che gli abitanti, con tutta la loro religiosità, non siano felici. Chi per un verso, chi per l’altro, anziché vivere la gioia della vita in armonia con gli altri, rispettano semplicemente la tranquillità e soffrono per lo più in religioso silenzio. L’innocuo alimento che ha per nome <i>cioccolata</i> diventa, nella generosità entusiasta di Vianne, un elemento effettivamente pericoloso per lo <i>status quo </i>locale. Comincia così l’aspra lotta fra il sindaco e Vianne, una lotta fatta di due principi antitetici: repressione e libero sfogo agli impulsi della piacevolezza.<br />
<br />
<i>Chocolat </i>(2000) del regista svedese Lasse Hallström è un film che gioca tutto su questa opposizione, con una voce narrante che ci avverte fin dall’inizio che si tratta di una favola, aiutata, in questo, da una serie di voli radenti della macchina da presa sui personaggi, dall’alto in basso; di campi e controcampi rapidi ma molto puliti; di alterazioni temporali del montaggio e di alcune inquadrature all’aperto che trasformano le case in luoghi antichi, che subissano suggestivamente i personaggi.<br />
<br />
Tratta dall’omonimo romanzo della scrittrice inglese Joanne Harris, la favola proposta da Hallström – il regista di <i>La mia vita a quattro zampe </i>(1985) e <i>Le regole della casa del Cidro </i>(2000) – anziché avere la tipica ambientazione ottocentesca, ne propone una del secondo dopoguerra, e in qualche misura ci dice che siamo ormai giunti, nel nuovo millennio, in un’era idealmente diversa dal secolo scorso. Molti di noi, infatti, negli anni cinquanta non erano nati o erano dei bambini; inoltre l’idea stessa di villaggio si è andata sgretolando. Il villaggio è, se si vuole, l’ultima roccaforte di un’era superata, e, visto secondo un’angolazione storicamente più ampia, di un’Europa che cambia, di un mondo che dopo secoli di colonialismo si trova a doversi misurare con il proprio presente ‘invaso’.<br />
<br />
La favola evita di raccontare la storia del Bene contro il Male, ma si incentra piuttosto sul tema dell’invasore e dell’invaso, attraverso un meccanismo di presentazione della protagonista e dell’antagonista che ne riveli le motivazioni, scongiurando una differenziazione fra buoni e cattivi. Poco a poco il film scava nei drammi locali, che, a ben vedere, sono fatti di piccole cose, ingigantite dalla mentalità ristretta (fatta di punti di vista ristretti) dei paesani. Le unità di misura dei valori sono il benessere e il disagio, l’allegria e la tristezza.<br />
<br />
L’idea di fondo della favola appare particolarmente felice. In genere la tipica lotta fra il Bene e il Male, specialmente quando ci sia di mezzo la religione, viene proposta attraverso storie d’adulterio o storie d’amore contrastato. Ma le storie d’adulterio e d’amore, per quanto candidamente raccontate, finiscono per coinvolgere, secondo la prassi narrativa, soltanto una frangia di persone ristrette (generalmente giovani), relegando gli altri personaggi alla funzione più o meno larvale di figure marginali.<br />
<br />
L’impiego un po’ <i>naïf </i>della cioccolata è, invece, un simpatico espediente per far sì che tutti i personaggi del film, i bambini come gli anziani, siano combattuti fra la precettistica del sindaco e le attrattive proposte dalla donna. Nel film assistiamo così all’intero coinvolgimento dei personaggi e al conseguente stravolgimento delle loro vite.<br />
<br />
Si nota, comunque, già nei due antagonisti del film, l’opposizione fra due figure classiche dello scontro: l’uomo e la donna; il prete e la strega. La difficoltà, qui, è che, essendo negli anni cinquanta, diventa impraticabile per il sindaco far passare Vianne per una strega, e la fa così passare per una donna non per bene, evidenziando ai paesani che ha una figlia senza avere avuto un marito. Di contro, c’è sempre qualcuno che gli chiede quando tornerà la moglie dal viaggio a Venezia. Un altro elemento di spostamento, rispetto alla situazione classica, è che il nobile debba rimpiazzare la figura del prete, scrivendogli i sermoni e suggerendogli il da farsi.<br />
<br />
Se i tempi sono cambiati per il sindaco, lo sono però anche per la donna: sua figlia non ha desiderio di fare la girovaga secondo la tradizione che Vianne ha ereditato dalla madre, sente invece il bisogno di farsi dei compagni di gioco in un posto e mantenerli, il che provoca un conflitto fra madre e figlia, che alla sensibilità di Vianne, così brava nel capire le esigenze degli altri, non può sfuggire, al punto che avverte una sorta di turbamento riguardo alle ricadute del proprio credo girovago sulla bambina.<br />
<br />
Il conflitto fra Vianne e il sindaco è anche un conflitto classico fra il cristianesimo e le culture colonizzate. Qui l’ecumene della buona novella viene ribaltata: l’America del Sud, attraverso la viandante, esporta la propria ricetta afrodisiaca nel mondo, mentre l’europeo (il sindaco) è immobile nel proprio luogo, nella vita tranquilla della <i>tranquillité</i>. È un fenomeno postcoloniale tipico del Novecento, con gli artisti e letterati occidentali che hanno attinto dalle più varie culture, dal Giappone alla Cina, dall’India al Nord Africa, all’America del Sud (una delle zone, questa, di maggiore immigrazione dall’Europa).<br />
<br />
La cultura laica, dopo i secoli delle invasioni e dei riti cristiani imposti, anche in forme cruente, ai colonizzati, segue ora una tendenza opposta, di maggiore apertura all’esotico, dopo l’inaridimento culturale che l’ortodossia inevitabilmente produce nell’autodefinizione di sé quale portatrice di una conoscenza del mondo interiore che, di fatto, è ancora tutta da conseguire. Nel film si assiste a questo fenomeno, e ne emerge un cristianesimo incerto, in apparente difficoltà: che, però, fagocita tutto, anche le nuove istanze (nel film: la cioccolata).<br />
<br />
Ogni favola racconta un mondo che non c’è, che non c’è mai stato (o semplicemente che non c’è più). Nel film, la favola porta con sé un trascinamento della nostalgia, di un qualcosa che, perché è passato, sembri perfetto. <i>Chocolat</i> trascina con semplicità la favola nella realtà, l’ideale (quello sacro e quello profano) in uno stato delle cose che ne ostacoli la prosecuzione, fino a negarla. L’ideale si sgretola sotto i colpi delle necessità. La lotta intorno alla cioccolata è raccontata in modo poetico ed esilarante, con un tono disincantato e affettuoso che assorbe bene, fino a mitigarle, le scene più drammatiche del film.<br />
<br />
La metafisica della cioccolata diventa anche il pretesto per parlare del peccato e dell’anima degli animali. In fondo, ciò che è messo in evidenza è il controsenso delle logiche in via di dissoluzione, che non reggono proprio più, come è quella del sindaco o del giovane prete; figura, quest’ultima, che predica senza sapere cosa stia predicando, depositario di un pensiero che non ha più una filosofia: e non è un caso se la sua predica finale è la conseguenza di un mutamento d’opinione da parte del pensatore locale, il sindaco.<br />
<br />
Ad accrescere la gamma delle differenze c’è l’innesto dei nomadi e l’opposizione, nei limiti della legalità, al loro stanziamento in paese: qui si avverte che la tradizione nomade di Vianne e quella di Roux (Johnny Depp) non coincidono, e si introduce un motivo di attrazione e di sfida amorosa fra i due. La lotta spietata del sindaco contro i nomadi si traduce in una serie di volantini razzisti sparsi in paese, che non hanno intenzione di produrre una violenza fisica, ma un allontanamento degli ‘invasori’ stanziatisi sulle rive del fiume con le loro barche.<br />
<br />
Qui viene rappresentato anche il rapporto fra un’idea originaria di opposizione e un’idea rielaborata: dall’opposizione non violenta del sindaco all’opposizione violenta dei suoi sostenitori. L’innesto del nomadismo serve anche per meglio caratterizzare la protagonista, che si trova ora a vivere con due tipi di collettività (quella paesana e quella nomade) che le sono entrambe estranee.<br />
<br />
Cinematograficamente, il film è ben costruito sotto tutti gli aspetti fondamentali: casting, interpretazione, fotografia, costumi, scenografia, musica e montaggio. La somiglianza fra la madre e la figlia è particolarmente felice, mentre la costruzione del personaggio interpretato da Johnny Depp, che aveva già lavorato con Hallström in <i>Buon compleanno Mr. Grape </i>(1994), è distante da tutti gli altri personaggi: vi è una sorta di distacco di Roux ottenuto attraverso l’innesto di un tipo estratto da altri generi cinematografici e attraverso l’eccessiva tenuta in campo e a fuoco dell’attore, anche quando è in secondo piano, al punto da apparire, rispetto agli altri, un personaggio ‘esibito’. Inoltre, il personaggio, con le sue pose da star e la sua figura pulitina, per nulla trasandata, senza un macchia, è reso improbabile, eterotopico, in contrasto anche con il fatto di avere delle doti manuali. Questa stonatura appare la scelta peggiore della regia, piuttosto che un limite dell’attore di <i>Dead Man</i>, che sa inscenare alcune delle sequenze drammatiche più significative di <i>Chocolat</i>.<br />
<br />
Alcune motivazioni dei personaggi non giustificate nel film ne rendono un po’ affrettato il finale, specialmente riguardo ai personaggi interpretati da Carrie-Anne Moss (brava qui nel calarsi nei panni della bella mamma antipaticamente bacchettona e amorevolmente severa, dopo le avventurose scorribande futuristiche di <i>Matrix</i>: regge il ruolo alla perfezione), e da Johnny Depp, freak alla Dolce e Gabbana dall’inizio alla fine.<br />
<br />
Il film di Hallström mi pare, nel complesso, molto ben riuscito: sa essere comico e drammatico, con tante punte di poesia, e ben contenuto nella dimensione della favola, senza ricorrere a trovate ad effetto che ne sfilaccino il filo di refe che attraversa la storia. I moventi degli altri personaggi sono ottimamente rappresentati.<br />
<br />
Può forse deludere la mancanza di tensione, ma il film è sul genere delle grandi storie dei buoni sentimenti degli anni cinquanta, senza rinunciare a toccare tematiche attuali: dall’alterità al razzismo, dalla fede alla passione, fra incanto, tradizione e il sopraggiungere apoetico della realtà storica che ospita l’avventura dei personaggi.<br />
<br />
[pubblicato su <i><a href="http://www.controluce.it/">Notizie in... Controluce</a></i>, n. X/4, aprile 2001, p. 21.]<br />
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<br /></div>Nicola d'Ugohttp://www.blogger.com/profile/15504174801531073127noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-844814479105817641.post-49838107296723818142009-06-19T01:34:00.023+02:002012-04-11T12:06:10.298+02:00Weronika e Véronique: due ragazze che si sentivano esistere. Su '"La doppia vita di Veronica" di Krzysztof Kieślowski<div style="text-align: justify;">
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh_FTW2wbzw9uPNHyOOKI4yqVXLpglHM55OPiTvEMGscAQjrP2RFiZCO4i2sAEFOd5qsg8nNNGUKokdx6E14Ey0p7-1hCSIQDIKDXvgqpZ-s4nt6-dU6Wwu6ShXFGHWRQwwoyfUtA8J7M0/s1600-h/ladoppiavitadiveronica.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh_FTW2wbzw9uPNHyOOKI4yqVXLpglHM55OPiTvEMGscAQjrP2RFiZCO4i2sAEFOd5qsg8nNNGUKokdx6E14Ey0p7-1hCSIQDIKDXvgqpZ-s4nt6-dU6Wwu6ShXFGHWRQwwoyfUtA8J7M0/s200/ladoppiavitadiveronica.jpg" /></a></div>
Immaginiamo di essere una ragazza polacca e di chiamarci Weronika. Abbiamo finito il conservatorio e la vita è aperta a nuove possibilità, tutte da verificare. Abbiamo un ragazzo che si presenta all'improvviso e sparisce. Abbiamo un papà affettuoso, ma che si tiene in disparte, con una vita che non ha le stesse caratteristiche della nostra. Non abbiamo una mamma, perché è scomparsa quando eravamo piccole. La nostra vita scorre come le nostre gambe, che corrono decise nell'incertezza del momento.<br />
<br />
Ogni tanto il nostro corpo ci ricorda che esistiamo, non solo quando mangiamo o abbiamo sonno, ma quando la pioggia appoggia le sue stille sul nostro viso immoto nel temporale, quando un ragazzo stringe il nostro corpo nudo al suo in una camera da letto, quando correndo per strada all'improvviso sentiamo un dolore nel petto e ci accasciamo su un tappeto di foglie cadute, prima di risollevarci e riprendere il tragitto interrotto. E, ancora, quando una passione ci si gonfia da dentro e si sprigiona in un canto delizioso che affascina chi ci ascolta.</div>
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Intanto sentiamo che non siamo sole, che c'è un'altra come noi, una che non è la nostra gemella, ma che sentiamo che esiste. E desideriamo incontrarla. A volte, guardando una nostra fotografia, ci pare di vedere lei, e sappiamo bene di poterla riconoscere.<br />
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Ogni tanto abbiamo degli incontri che sono come visioni. Persone che sembra che solo noi vediamo, seppure passino nella strada in pieno giorno: un esibizionista che apre il cappotto per mostrarci i genitali o una vecchietta che trasporta delle borse troppo pesanti per lei, e ci viene il desiderio di lanciarle una voce per darle una mano. L'esibizionista senza volto riprende il suo cammino incurante di noi, e ci fa sorridere a ripensarci; la vecchia senza volto si porta via la gobba e le borse.</div>
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Ma un giorno, in un'agitata folla di Cracovia, una ragazza sale su un pullman con la sua macchina fotografica e continua a scattare foto a destra e a manca sul pullman in movimento. Noi guardiamo sbalordite qualcuna che per noi è molto più che una sosia. Rimaniamo lì a fissare le bolle dei nostri occhi, anche dopo che il pullman è sparito. Poi andiamo a un'audizione. La nostra voce affascinante è strana, interrotta da un sobbalzo interno, ma solo noi sappiamo che si tratta del nostro cuore malato che fa le bizze, e ci tocca trattenere le forze perché la voce ci si smorzi appena un po' prima del previsto. La voce ci esce da dentro, non possiamo farci niente, è più forte di noi quel desiderio di esibirci.</div>
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Per gli altri, per il direttore d'orchestra e per chi ci ha ingaggiate, abbiamo semplicemente una "strana voce", bella, limpida e con quel tocco in più che loro non sono in grado di comprendere. E nel mezzo del nostro canto davanti alla platea, dopo qualche sussulto che siamo riuscite a soffocare, cadiamo sul pavimento senza più vita. Gli amici e i parenti gettano la terra fresca sulla nostra bara dal coperchio trasparente come un vetro, e la nostra visione di loro scompare lentamente manciata dopo manciata. Non è il nostro dolore che avvertiamo, ma quello disegnato sui loro volti.</div>
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<span style="font-style: italic;">La doppia vita di Veronica </span>(<span style="font-style: italic;">La Double Vie de Véronique</span>, 1991) di Krzysztof Kieślowski è un viaggio suggestivo nell'esperienza del doppio. Dopo aver raccontato la storia di Weronika, Kieślowski apre con una delle tante scene d'amore del film. Ci riporta immediatamente nella dimensione della carne e del corpo, ma anche della doppiezza del senso del corpo. Appena morta Weronika, ce la restituisce in una sequenza poetica in cui anzitutto quello che deve essere evidenziato è la sanità del corpo, la sua esposizione e pienezza sensuale. L'intera sequenza è volutamente in sospensione, o meglio in una sovrapposizione di immagini che non si disturbano reciprocamente, ma si compendiano e rendono la scena incantevole e, in un certo senso, magica.</div>
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Il tema del doppio riguarda una molteplicità di aspetti: l'identità (Weronika e Véronique), il corpo (sano e malato), la mente (io in me, lei in me, io da sola, io insieme a lei, io ora, io eventualmente), il segno esteriore (presenza, assenza e individuazione di causa ed effetto nel tempo) ecc. L'apparente parallelismo delle due vite assume anche cinematograficamente due tensioni: film intimistico e film giallo. Il doppio di <span style="font-style: italic;">La doppia vita di Veronica</span> non è fatto di opposizioni o coincidenze. Tutto il contrario: Weronika e Véronique non sono le due bambine che il burattinaio Alexandre (Philippe Volter) racconta a quest'ultima:</div>
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"Il 23 novembre 1966 è stato il giorno più importante delle loro vite. È in quel giorno, alle tre del mattino, che sono nate tutte e due, in due città diverse, in due diversi continenti. Tutte e due avevano i capelli neri, occhi verde scuro. Quando tutte e due avevano due anni e sapevano già camminare, una si bruciò toccando il forno. Qualche giorno dopo anche l'altra avvicinò il suo dito al forno, ma all'ultimo momento lo ritirò: pertanto, non poteva sapere che si sarebbe bruciata. Ti piace?"</div>
</blockquote>
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L'insegnante di musica Véronique non risponde, né si mette a piangere come dopo aver scoperto la fotografia che aveva inavvertitamente scattato a Weronika a Cracovia, nel trambusto del pullman affollato e in movimento.</div>
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Alexandre, artista e animo gentile e un po' maldestro, racconta a Véronique quello che siamo normalmente portati a pensare quando ci figuriamo due sosia, nati addirittura lo stesso giorno. Da un lato accomuna le due persone per le caratteristiche psicofisiche, dall'altro le differenzia per collocazione spaziale. Intanto, le due ragazze non sono nate "in due diversi continenti". Poi, le esperienze di Weronika e Véronique si compenetrano l'una nel pensiero dell'altra.</div>
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Ed è qui una differenza rimarchevole, che Kieślowski accompagna attraverso il compenetrarsi fitto dei languori intimistici e delle tensioni da thriller, che non ci danno tregua e insieme ci affascinano e ci incantano. Il primo momento è dedicato al sentire, ossia all'aspetto umorale, che in arte viene reso attraverso atmosfere cromatiche e di suono e richiami figurativi: avvertire l'altro in sé è già sentire in sé, e semmai è un estendere il proprio sé, ossia avvertire qualcosa in più che è in noi, ma che non era in superficie. Il secondo momento è quello successivo, ossia la reazione all'umore, un figurarsi qualcosa che ancora non è ma che può (o potrebbe) essere: è il momento dell'azione o dell'attesa dell'azione, in ogni caso di una modificazione.</div>
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Il mezzo poetico adottato per convogliare questi due momenti è reso attraverso il movimento della macchina da presa (che sa muoversi come l'archetto di un violino o la bacchetta di un direttore d'orchestra) e una miriade di oggetti presenti nel film. È anzitutto un film di sguardi, ammiccamenti ambigui, di lenti che riflettono, dilatano, capovolgono paesaggi e occhi, così come gli occhiali del papà di Weronika fanno passare attraverso la propria lente il paesaggio che sta disegnando nella notte, così come la pallina che deforma le immagini, o la lente di ingrandimento che le fa apparire ravvicinate.</div>
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E, ancora, la luce, che caratterizza la seconda parte del film (insieme ai rossi tipici della pittura fiamminga), dedicata alla storia di Véronique, da subito, quando ci accorgiamo che la sovrapposizione suggestiva d'immagine diventa una lampadina accesa accanto ai due corpi degli amanti. E poi il sole in continuazione su Véronique anche negli interni, il viso illuminato di Alexandre che incontra lo sguardo di Véronique, il gioco dello specchio che riflette la luce su di lei dalla finestra di fronte.</div>
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Anche l'intesa con Alexandre avviene attraverso immagini simboliche: una storia di burattini che coincide con quella che ha in mente la ragazza francese; una ballerina che cerca di spiccare il volo, cade e muore, è coperta dal lenzuolo, il lenzuolo si fa bozzolo, e lei ne emerge con le ali e spicca il volo in una nuova vita.</div>
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Il segno stesso come registrazione e cancellazione dell'evento è reso più volte. Il più evidente è quello delle fotografie: Weronika che guarda la propria foto come se si trattasse dell'altra e Véronique che guarda l'altra che però ha un cappotto non suo. Ma anche lo scontro automobilistico sentito nell'audiocassetta, l'automobile in frantumi ritrovata tempo dopo alla stazione ferroviaria, e la cancellazione dell'incidente attraverso la rimozione dell'auto stanno lì ad attestare che ciò che resta è essenzialmente nella memoria, a corroborare l'importanza dell'interiorità individuale sulle vicende esteriori (oltre a costituire, insieme al tema della corsa, uno dei richiami frequenti nei film del regista).</div>
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Oltre la somiglianza Kieślowski racconta, con le due vite, la differenza fra adolescenza e maturità, fra l'avventatezza e una maggiore cura di sé. Weronika alza il viso a ricevere l'acqua dal cielo, incurante del proprio corpo, trascurandolo totalmente. Véronique, con lo stesso gesto, si ferma un attimo fra due zone d'ombra a ricevere la calda luce del sole sul viso, come per tonificarsi. Weronika corre, corre sempre, nonostante la cardiopatia. Véronique continua a fumare, ma va in automobile e dal cardiologo per tenere sotto controllo la malattia. Weronika ha voglia di fare, ha sempre fretta di arrivare da qualche parte, non sa bene dove: se sente il desiderio di cantare intona il suo canto senza badare alla salute. Véronique abbandona l'attività artistica e si dedica solo all'insegnamento: non sa spiegare perché, ma lo fa dopo aver sentito in sé che Weronika è morta.</div>
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Weronika sente che non è sola al mondo; Véronique sente di aver perso qualcuno, e per dare un'idea della sensazione di perdita chiede al padre come si sentiva quando era morta la mamma. La seconda vita di Veronica, ossia quella di Véronique dopo la morte di Weronika, è una vita raddoppiata e dimezzata insieme. Dentro di sé la ragazza francese avverte che non deve sprecare la propria vita, non deve morire trascurandosi.</div>
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Il sentire di Weronika è, se si vuole, più ingenuo: è un forte sentire che non ha tempo di tramutarsi in un'idea più nitida. Quando vede Véronique sul pullman sa di essersi trovata, ma non sa di preciso cosa quel trovarsi significa. Véronique invece, nel suo giallo interiore, comprende con dolore quello che il burattinaio Alexandre non ha maturato in sé: l'idea della perdita della possibilità di condividere le proprie idee, le proprie sensazioni, il proprio corpo con l'altra.</div>
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È una condivisione che riguarda la possibilità di trovarsi non tanto negli stessi panni o nello stesso corpo di qualcun altro, ma nella stessa carne e in uno spirito affine. La ricerca di Weronika da parte di Véronique chiude il suo cerchio non tanto nel momento in cui è morta, ma nel momento in cui scopre se stessa fotografata. È solo allora che la sensazione di perdita trova un oggetto esterno, reale. Entrambe trovano conferma di quello che sentivano: la polacca riesce a vedere la francese, mentre la francese ha conferma che la polacca è esistita. Ed è solo allora che scoppia in lacrime, prima di pensare con tenerezza quello che ha perso.</div>
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È a questo punto che per Véronique comincia una nuova vita, che Kieślowski chiude con la sua mano sulla corteccia d'albero, così come all'inizio Weronika bambina teneva fra le mani la foglia di un albero e ascoltava la voce fuori campo e fuori scena della mamma che le spiegava cosa significasse quell'elemento della natura staccato dal suo tronco.</div>
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Il film è la parabola di una ricerca di sé, attraverso l'individuazione delle proprie possibilità ulteriori (i percorsi non intrapresi), il confronto con un altro che matura altre esperienze a partire da un materiale umano indifferenziato. La domanda di fondo del regista polacco è: Cosa farei io se mi staccassi dal mio percorso per un momento, se mi guardassi da dentro e da fuori con chiarezza?</div>
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A livello narrativo, la parabola racconta di chi è morta e di chi è sopravvissuta, e si capisce bene che la seconda, dopo aver concepito l'idea della prima, vede la vita in modo diverso. Kieślowski segue il percorso fino a un certo punto. Non ci dà una risposta, ma ci pone piuttosto una domanda: atto alquanto raro nel cinema di oggi, dove i più offrono risposte conclusive su qualsiasi discorso riguardi l'uomo.</div>
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Per la sensuale, sofferta, spontanea e complicata interpretazione dei due ruoli, Irène Jacob è stata premiata come migliore interprete femminile al Festival di Cannes del 1991. Le difficoltà simboliche del film e la ricchezza della tematica sono state enormemente sottovalutate dalla critica, che trovandolo sicuramente emozionante per le incantevoli musiche di Zbigniew Preisner e la cinematografia in genere, ha trovato difficile calarsi in una dimensione dell'intimità umana che non rientra negli schematismi consueti del discorso sul doppio nell'Occidente contemporaneo. Un motivo in più per far tesoro di una tematica che è qualche passo oltre i discorsi sui gemelli, i sosia e i cloni visti in un ambito tristemente materialista. Il film, con tutta la sua carica di sensualità, è anzitutto dedicato allo spirito.<br />
<br />
[<i> puoi scaricare e leggere il racconto nel formato editoriale originale cliccando su: </i><a href="http://nicoladugo.tripod.com/pdf/cinema/la-doppia-vita-di-veronica.pdf">scarica PDF</a> ]<br />
<br />
[pubblicato su <i>Notizie in... Controluce</i>, n. IX/12, dicembre 2000, p. 16.]</div>
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<span style="font-size: 85%;"> <br />
Uno spezzone del film:<br />
</span></div>
<object height="344" width="425"><param name="movie" value="http://www.youtube.com/v/EecLJK4eI4Y&hl=en&fs=1&">
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<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh2Op5vzKFQRPL94JesKAp6_CffZaW0m_vk8gAovnjOhKPDZRpCsmyYFuJYSgK0l_6Tehyphenhyphendn60cht9I-TjyBQRDFvmv8DLG4e_LaHDUL-p4acZFlNUEsxM_yMFUXfanGikqTbl7KxkHjck/s1600-h/grazieperlacioccolata.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh2Op5vzKFQRPL94JesKAp6_CffZaW0m_vk8gAovnjOhKPDZRpCsmyYFuJYSgK0l_6Tehyphenhyphendn60cht9I-TjyBQRDFvmv8DLG4e_LaHDUL-p4acZFlNUEsxM_yMFUXfanGikqTbl7KxkHjck/s200/grazieperlacioccolata.jpg" /></a></div>
La storia raccontata da Claude Chabrol nel suo ultimo film, <i>Grazie per la cioccolata</i> (<i>Merci Pour le Chocolat</i>), affronta il tema della procreazione e degli scenari mentali che gli individui si fanno a partire dalla propria idea di genitore e figlio.<br />
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Mika Muller, magistralmente interpretata da Isabelle Huppert, è un’industriale della cioccolata che ha appena perso il padre, fondatore dell’azienda. Otto anni prima aveva ucciso la sua migliore amica, Lisbeth, e ora ne risposa il marito, André Polonski (Jacques Dutronc), un celebre pianista.</div>
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Chabrol, in sintonia con la sua secchezza espositiva, non perde tempo nel farci entrare nel meccanismo delle relazioni fra i personaggi, tenendoci volutamente un po’ fuori, senza coinvolgimento, come se partecipassimo da estranei a una festa di matrimonio, obbligandoci ad apprendere dai discorsi degli invitati chi siano gli sposi. Ogni battuta ha una sua finalità, senza orpelli. Una sola battuta ci dice che Mika e André sono famosi al punto da interessare la stampa (André chiama per nome la giornalista); si erano già sposati vent’anni prima; lui ha un figlio diciottenne, Guillaume (Rodolphe Pauly), avuto da Lisbeth.<br />
<a name='more'></a></div>
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Già qui emerge la figura della moglie morta: una donna attiva, creativa, frizzante, piena di energia, amata da tutti. Mika la venera e ne tiene vivo il ricordo. Per tutti, Lisbeth è morta in seguito a uno strano incidente stradale: andata a comprare il sonnifero di cui André ha sempre bisogno, si era addormentata alla guida dell’auto sulla panoramica; l’autopsia aveva riscontrato nel suo corpo tracce di alcool e barbiturici, nonostante lei non ne facesse uso.</div>
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Ogni sera Mika prepara la sua cioccolata a Guillaume, un ragazzo inebetito, dai riflessi lenti, irrisoluto, depresso. Una famiglia famosa, ricca, stimata e piuttosto deprimente: Mika sembra una mammina; André ha sempre la testa sul pianoforte a cercare di raffinare i passaggi dei grandi compositori; Guillaume armeggia giochini elettronici, senza una prospettiva: in nessun senso.</div>
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Ma Jeanne Pollet (Anna Mouglalis) è una ragazza piena di vitalità. Anche lei ha diciott’anni ed è fidanzata con il figlio di un’amica della madre, che lo ha anche assunto nella sua clinica di medicina legale. Di ritorno da una partita a tennis, Jeanne e il ragazzo raggiungono le madri che parlano del pianista, dopo aver letto sul giornale del suo matrimonio. Lo chiamano l’uomo della clinica. Jeanne si incuriosisce al punto che la madre del fidanzato le rivela che André Polonski l’aveva scambiata per la figlia il giorno in cui era nata. Poi il padre di Jeanne aveva riparato all’errore commesso dall’infermiera nel mostrare il neonato, e del resto la moglie del pianista aveva avuto un maschietto anziché una femminuccia: tutto a posto quindi, secondo la madre.</div>
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Jeanne resta male del fatto che la madre non gliel’abbia mai detto; la madre resta male che l’amica lo abbia fatto, nonostante dica che si trattava di un episodio di tanti anni prima, privo di importanza. Per Jeanne, che studia pianoforte ed è appassionata di Polonski, la rivelazione occupa tutti i suoi pensieri. Fa visita a casa di André Polonski e mette in crisi le due famiglie: si presenta come sua figlia; scopre che Mika somministra del sonnifero nel cioccolato di Guillaume; accende la curiosità e l’entusiasmo assopito di André che la trova simile a Lisbeth; incuriosisce Mika che pensa la stessa cosa; mette in apprensione Guillaume.</div>
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Non ci troviamo in un film di Pedro Almodóvar, ma di Claude Chabrol, e non ci troviamo in Francia ma in Svizzera, paese neutrale, sociale, finanziario e industriale, in cui tutto è regolato e pacifico, in cui i ritmi sono scanditi, più che con l’orologio, con il contagocce, in cui la blandizie borghese acquieta tutto. I rituali sociali sono sinteticamente descritti dal regista, approfittando della giusta ambientazione per far svolgere i dialoghi: un matrimonio senza passione; una mostra di fotografia commemorativa di Lisbeth sovvenzionata da Mika; l’attesa delle due madri in carriera che aspettano i figli a un bar. Vita domestica più monotona che tranquilla, con colleghi che vengono a cena; giornate lavorative in ufficio o in clinica. Né l’arte, né la natura, né la passione amorosa scuotono il torpore dei personaggi. La preoccupazione viene assorbita, piuttosto che sfogata.</div>
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Così, anziché scenate e accese proteste, l’ospite inattesa viene ricevuta con cordialità, mentre tutto un meccanismo della perdita viene messo in moto: Mika vede la possibilità di perdere la famiglia; Guillaume il padre; la madre di Jeanne (Brigitte Catillon) la propria figlia. Chi non si vede perdere niente sono André, Jeanne e il suo fidanzato, che ha un ruolo marginale solo in apparenza, essendo fondamentale nell’economia espressiva di Chabrol: come dimostra la sua regia sempre essenziale, per cui nessun dettaglio è messo lì per caso, non si indulge in alcun modo all’erotismo. Non è una questione d’amore sensuale quello messo in scena, ma un’altra questione, e per questo Chabrol, nella sequenza in cui Jeanne è a letto con il fidanzato e gira per la stanza, non esibisce il corpo dell’attrice, né inserisce battute o sguardi di gelosia da parte del ragazzo.</div>
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La macchina da presa che si introduce nelle camere da letto già ci avverte che il desiderio dei personaggi e il loro dramma non è in nessun modo amoroso: André Polonski che mette il braccio sulla spalla della ragazza può anche sentire ravvivarsi il passato del perduto amore per Lisbeth, ma tratta e guarda Jeanne essenzialmente come la figlia che avrebbe voluto avere e che non ha mai avuto. Nonostante l’evidente sensualità di Jeanne, Mika non la vede come antagonista erotica (Chabrol lo segnale inquadrando Mika di spalle che tesse senza mai voltarsi verso Jeanne e André, poiché non è interessata alla relazione dei corpi). Nel rapporto matrimoniale fra Mika e André il sesso non ha alcuna importanza.</div>
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Cos’è allora il sesso, così fondamentale nel film? Jeanne va a letto con il fidanzato, che l’aiuta quando le occorre: non c’è alcuna crisi fra i due dopo la visita a Polonski (le manca di più perché lei è più impegnata, ma i due se la intendono bene). Non c’è alcuna crisi fra Mika e André dopo la visita di Jeanne. Guillaume non è interessato sessualmente alla sua bella coetanea. La madre di Jeanne non ha storie passionali (con l’amica non parlano di uomini, ma dei figli). In nulla il sesso è avvertito come passione dai personaggi in crisi. In apparenza è invece fondamentale la procreazione, l’essere padre, madre, figlio o figlia di uno anziché di un altro personaggio.</div>
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Di fatto, Mika va a conoscere la signora Pollet per sapere se Jeanne può essere la figlia del marito. L’appuntamento è annunciato dal nervosismo della madre di Jeanne. Già qui si sarebbe portati a credere che Mika voglia saperlo per eliminarla, ma Chabrol non dice questo. Il regista francese sta descrivendo la messa in crisi della famiglia: il dramma non è solo quello dell’assassina, che egli predilige come personaggio principale dei suoi lungometraggi, ma della madre di Jeanne e del figlio di André. E se la vita non è fatta solo di genitori genetici, non è fatta neppure solo di genitori adottivi.</div>
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Rispetto alla questione dell’esser figli genetici o adottivi, di derivazione naturale o di derivazione ambientale, Chabrol indica un terzo modo: essere figli e genitori elettivi, scegliersi la famiglia e le persone con cui condividere qualcosa che sorge da dentro, che si è fatto cultura individuale attraverso dei percorsi che i figli non condividono con i genitori. Di fronte alla possibilità di perdere la figlia, la madre di Jeanne arriverà a farle perdere il padre: le dichiarerà che neppure il padre che aveva avuto era il suo vero padre, ma che la ragazza è stata concepita con il seme di un donatore anonimo. La madre esperta di chimica che dice a Mika di non aver mai avuto la curiosità di verificare che la figlia fosse sua, di fronte alla figura di un nuovo possibile padre cancella totalmente la possibilità di verificare se il suo sangue coincida con quello di un padre che non si saprà chi sia stato.</div>
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Inventare un padre in questo modo, è togliere la possibilità di ogni verifica, ma anzitutto mettere da parte l’ipotesi che il suo sangue non coincida con quello del padre morto, poiché se lui non fosse il padre, lei non sarebbe la madre. Non comprende però che Jeanne non cerca un papà, ma una figura che è già in linea con la sua passione per la musica. Ed è questa vitalità che più di ogni altra cosa preoccupa Mika Muller.</div>
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L’assassina fa di tutto perché Jeanne le stia dentro casa e all’interno della famiglia. Il sonnifero che amministra di nascosto a Guillaume, mettendoglielo nella cioccolata, non siamo autorizzati, fino a questo punto, a ritenerlo un tentativo di omicidio, nonostante sia evidentemente nocivo al ragazzo. Di fatto, non si avverte alcun movente: il fatto che sia ormai diciottenne non è neppure un movente, visto il suo completo assoggettamento a Mika: la conosce da sempre e non la considera una «matrigna», ma piuttosto una mamma d’adozione. Così, Guillaume è inebetito dai sonniferi che non sa di ingerire, mentre André non può farne a meno.</div>
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Mika sta tenendo tutti in un torpore, nel timore di perdere qualcosa che poco a poco emergerà nella storia, ma che i suoi comportamenti già ci anticipano, prima che sia lei a rivelarlo a Jeanne: l’imprenditrice non è figlia dei suoi genitori, fu presa da un orfanotrofio. Ragazza senza qualità, non si sentiva amata dalla madre, non si sentiva accettata e amata nella famiglia. Morto il padre, si risposa.</div>
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La donna che seguiamo nel film, e di cui si avverte sempre una cattiveria di fondo, larvale, un’insidia mortale, viene fatta emergere poco a poco nelle sue ragioni. Chabrol la scruta con la sua macchina da presa, la cerca continuamente per farci osservare le sue reazioni a tutto. Se da un lato è una donna pericolosa, un’assassina, dall’altro il pericolo mortale viene via via circoscritto a un ambiente ristretto: la famiglia. L’assassina è, ancora una volta, la vittima della propria condizione interiore, del sentimento della propria mediocrità, in questo caso agganciato al proprio passato familiare.</div>
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Secondo il suo modo di procedere, il sonnifero può avere due effetti diversi su persone caratterialmente diverse: a seconda che si sia strettamente legati alla casa, che si accetti la propria lentezza, la propria blandizie; oppure che si cerchino cose eccezionali, svincolate dalla casa, come andare a cento all’ora sulla panoramica (l’immagine del lago che pare un mare, sembra strettamente in relazione con il doppio senso della fuga, del viaggio, dell’avventura, e quello della chiusura, della quiete, del radicamento ambientale: Lisbeth muore non in un qualsiasi punto, ma sulla panoramica a strapiombo sul lago). Tutto deve restare così com’è, l’agitazione deve rappacificarsi, poiché Mika soffre l’inquietudine della perdita affettiva, è buona con tutti, accetta tutti, ed è completamente irrigidita a ogni passione, come confesserà lei stessa al marito.</div>
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La messa in scena dell’ordine è resa per tutto il film attraverso una serie di coreografie degli attori, che si dispongono nell’inquadratura e si muovono secondo disposizioni prestabilite: per es., in una sequenza di nessun rilievo narrativo, Mika, la signora Pollet e la segretaria sono disposte su un solo piano che copre tutta l’inquadratura, e appena una si muove da destra a sinistra lo spazio vuoto viene momentaneamente riempito dal passaggio di un infermiere con il vassoio).</div>
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Anche il gioco di spalle e specchi è più complicato di quanto pensi Jeanne: lei crede di aver sorpreso, attraverso lo specchio, Mika versare apposta la cioccolata per terra, ma come poteva sapere Mika che Jeanne le desse le spalle se erano entrambe voltate? Il dare le spalle a Mika, anziché guardarsi le proprie, è un elemento ricorrente del film. Più probabile che, conoscendo la casa, volesse mettere alla ‘prova’ l’abilità di Jeanne, come lei stessa si è espressa con il marito dopo che Jeanne è andata via.</div>
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Mika, secondo la sua ottica, non uccide in senso proprio, ma lascia morire. Che Jeanne stia lì dentro casa con il marito, anche con la porta chiusa, non le mette inquietudine. Basta che ci resti. Quello che non le piace sono le iniziative, come il vecchio consigliere d’amministrazione che vuole apportare modifiche nei bilanci dell’azienda proponendo produzioni innovative. La mediocrità che avverte dentro di sé vorrebbe che sia estesa agli altri, che ci sia una pacificazione di tutto, nella blandizie. Quello che desidera è poter dare per ridare: non poter dare una volta soltanto. E quando Jeanne la sostituisce per prendere i sonniferi che Mika non aveva acquistato, l’evento è, appunto, una sostituzione, un rimpiazzare, un annullare l’unicità del proprio ruolo familiare, un cominciare a scalzare: poco prima le aveva lasciato lavare i piatti, occupazione però più tipica della domestica.</div>
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E il dramma si compie in poco tempo, l’iniziativa tradisce Jeanne, così sicura di sé: la ragazza, ripiegando sul caffè per evitare la cioccolata, non ha evitato di ingerire il sonnifero e si va a schiantare ad alta velocità contro un muro insieme a Guillaume, che Mika aveva cercato di risparmiare ferendogli un piede con l’acqua bollente.</div>
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Ad André, che pare svegliarsi dal torpore solo quando gli manca il sonnifero, la sera in cui Jeanne è uscita in auto richiama alla mente quell’altra sera in cui morì Lisbeth e in cui Mika, come in questa, lavava le tazzine sporche. Finalmente si agita, chiama la madre di Jeanne perché telefoni alla figlia sul cellulare, ma è troppo tardi. L’auto si è già schiantata. Mika gli confessa il primo omicidio, e André è dispiaciuto, ma non la biasima. Poco dopo, arriverà la telefonata che lo avverte che i ragazzi e la madre sono in questura, completamente illesi.</div>
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Ma André torna a suonare: ora di nuovo quieto, come se nulla fosse successo. A Chabrol qui non interessa chiudere, come in altri film, con l’arresto dell’omicida. Gli elementi oggettivi, per incastrarla, hanno evidentemente bisogno della testimonianza di Guillaume e André, che non pare neppure tenerci: entrambi, dopotutto, hanno bisogno di Mika. Le tazzine sono lavate, la situazione, in questi termini, resta piuttosto vaga per gli inquirenti. Chabrol, così puntuale, lascia un dubbio, poiché è interessato a raccontarci altro.</div>
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Mai come in questo film Chabrol racconta la pietà per l’assassina. Lo fa in una maniera del tutto particolare, con la sequenza più bella di tutto il film, un lunghissimo silenzioso pianto in cui Isabelle Huppert dimostra le sue straordinarie doti interpretative. Questa scena, senza tagli e montaggio, ci dice che l’omicida è abbandonata a se stessa e nessuno si cura di lei: è relegata, nella chiusura dei titoli di coda, all’essere fuori della storia che ci interessa, e che quindi allo spettatore non interesserebbe granché, ma interessa al regista.</div>
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Forse Mika sentiva la propria infelicità anche nel matrimonio, era stanca e si dava un tempo perché tutto finisse: qui il dubbio se l’interruzione della somministrazione del sonnifero al figliastro fosse l’interruzione di omicidio o meno; di qui l’idea che essere vista da Jeanne mentre versava apposta la cioccolata per terra fosse un’ennesima ‘prova’ – come lei stessa diceva – dell’abilità della ragazza e della possibilità che fosse la figlia dell’amica. Ci sono persone, come Mika, che non desiderano altro che di poter rinascere, incapaci come sono di essere felici uscendo dai meccanismi caratteriali formatisi nell’infanzia e nell’adolescenza.</div>
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Infatti, la descrizione finale del dolore dell’assassina assume quattro forme: da un lato dello schermo scendono i titoli di coda sulla storia finita, dall’altro l’Huppert continua a recitare; Mika depone la sciarpa che come Penelope ha finito ora di tessere; piange un pianto delicato, lento, con lunghi fiotti di lacrime che le venano a intermittenza il viso; si accovaccia sul divano e resta lì, fino a chiudersi completamente come un feto (emblema massimo dell’innocenza).</div>
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Mika non desiderava la morte di Lisbeth, la «donna vera» (come dice a Jeanne), da lei ammirata e uccisa. Lei stessa ne ha subito la perdita e continua incessantemente a pensarla. E si sente cattiva, tremendamente cattiva. E non sa che farci. Lei stessa vorrebbe rinascere, in un altro grembo, in un’altra famiglia. Le resta oscuro sapere cosa significhi essere una figlia elettiva.<br />
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<i>[ puoi scaricare e leggere il racconto nel formato editoriale originale cliccando </i>-> <a href="http://nicoladugo.tripod.com/pdf/cinema/grazie-per-la-cioccolata.pdf">scarica PDF</a> ]<i> </i><br />
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<span style="font-size: 85%;">[pubblicato su <a href="http://www.controluce.it/"><span style="font-style: italic;">Notizie in... Controluce</span></a>, </span>n. IX/11, novembre 2000<span style="font-size: 85%;">, pp. 14-16.]</span><br />
<span style="font-size: 85%;"> </span><br />
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<span style="font-size: 85%;">Trailer del film (in francese): <br />
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<span style="font-size: 85%;"><object height="339" width="420"><param name="movie" value="http://dailymotion.virgilio.it/swf/x9ahdd">
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<span style="font-size: 85%;"><b><a href="http://dailymotion.virgilio.it/swf/x9ahdd">Merci pour le chocolat - Bande annonce FR</a></b></span><br />
<span style="font-size: 85%;"><i>by <a href="http://www.dailymotion.com/_Caprice_">_Caprice_</a></i></span></div>
<span style="font-size: 85%;"></span>Nicola d'Ugohttp://www.blogger.com/profile/15504174801531073127noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-844814479105817641.post-15347275915032666542009-06-15T17:01:00.021+02:002012-04-16T00:01:12.351+02:00Stanley Kubrick: "Eyes Wide Shut"<div style="text-align: justify;">
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjoame4Zjv_JibTCV53ZumPILk8I_Bkd8Zu4UUs5KtSpZ-2OEiYDVp9uDV23HsO15uDdc9DBgQISGFgxyBoENfXto0o5m3bQl_eCogRdpbbS3HSfVuT7woNAc1Eo7RXfSt-LTZvDHl7TkQ/s1600/ews.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjoame4Zjv_JibTCV53ZumPILk8I_Bkd8Zu4UUs5KtSpZ-2OEiYDVp9uDV23HsO15uDdc9DBgQISGFgxyBoENfXto0o5m3bQl_eCogRdpbbS3HSfVuT7woNAc1Eo7RXfSt-LTZvDHl7TkQ/s200/ews.jpg" /></a></div>
Era attesissimo da un anno l’ultimo film di Stanley Kubrick <i>Eyes Wide Shut</i>, e ciascun addetto ai lavori si aspettava, con la propria aria di esperto, di trovarsi di fronte l’ennesimo capolavoro del regista newyorkese. Fra i meno esperti, v’era chi avrebbe gioito nel vedere la trasposizione cinematografica del romanzo <i>Traumnovelle</i> (<i><a href="http://sullaletteratura.blogspot.com/2009/09/arthur-schnitzler-e-linsostenibile.html">Doppio sogno</a></i>) dello scrittore austriaco Arthur Schnitzler. Qualche altro, pensando che Kubrick fosse l’unico regista che potesse realizzare un’opera pornografica di valore, già pregustava le tinte forti dell’erotismo esplicito su pellicola, dimenticando fra l’altro l’abilità di altri grandi registi, primo fra tutti Ken Russell.<br />
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Invece <i>Eyes Wide Shut</i> ha deluso le aspettative dei più, già a partire dai primi commenti veneziani. In effetti, questo film non segue i modelli classici della cinematografia fin qui esperiti. Ha qualche cosa di teatrale, che, pure, si tiene a debita distanza dalle trasposizioni cinematografiche dei vari drammi di Sofocle, Machiavelli, Shakespeare, Molière e Goldoni.<br />
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Un indizio dell’operazione condotta da Kubrick in questo suo lavoro la troviamo nel titolo: <i><a href="http://www.archiviokubrick.it/film/ews/mainews.html">Eyes Wide Shut</a></i>, che, riprendendo l’espressione <i>wide open</i> («ben aperto», formata da «largo» e «aperto»), la mutua in un ossimoro che, di fatto, asserisce che gli occhi sono chiusissimi quando sono ben aperti. Inoltre, <i>shut-eye</i> vuol dire «sogno», ristabilendo con una serie di giochi di parole un punto di contatto con il titolo di Schnitzler.<br />
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L’occhio aperto e chiuso insieme è proprio l’effetto che Kubrick ha voluto dare attraverso l’uso della macchina da presa, la quale chiude i personaggi nell’inquadratura e taglia dal campo gli scenari in cui agiscono. L’effetto che se ne ha è quello della chiusura dello spazio umano dentro una sorta di urna di vetro, che si sposta come un involucro intorno al protagonista, il dottor Bill Harford (Tom Cruise).<br />
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I luoghi, inoltre, perdono la loro entità tradizionale, come qualsiasi oggetto che, estrapolato dal proprio contesto, viene proposto a se stante: tutta l’atmosfera che circonda l’oggetto non viene accesa nella nostra mente, anzi si ha un senso di tradimento degli oggetti e dei luoghi comunissimi che entrano nell’inquadratura. New York stessa diventa una città verticale, senza orizzonte a perdersi, tutto il contrario dell’atmosfera ampia della città finanziaria che vediamo nei film di Woody Allen, al telegiornale o di persona.<br />
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Gli spazi chiusi dall’inquadratura (sia gli interni che gli esterni) diventano allora una sorta di <i>ready-made</i>, ossia di quegli oggetti come l’orinatorio rivoltato o una ruota di bicicletta che, all’inizio del secolo, l’artista Marcel Duchamp propose ad alcune gallerie newyorkesi. Nel film di Kubrick l’uomo diventa un oggetto, quasi un automa, certamente un alieno nel luogo in cui abita. L’occhio, una volta che è «ben aperto» sul dettaglio, «chiude» ogni visione d’insieme, giacché ciò che l’uomo cerca è un quadro d’insieme in cui collocare il dettaglio.<br />
<br />
Bill, muovendosi di dettaglio in dettaglio, non riesce ad avere un quadro d’insieme giacché non ha un pensiero d’insieme in cui collocare i nuovi indizi. La sua visione del mondo e della donna è fatta di quelle certezze comuni che prescindono e precludono qualsiasi quadro conoscitivo, nella misura in cui pretendono di far rientrare nella propria inesperienza scenari molto più ampi e articolati, ponendosi domande a cui nessun uomo saprebbe dare una risposta definitiva.<br />
<br />
Emblematica è la scena dell’incontro con Victor Ziegler (Sydney Pollack) nel finale del film. Quest’ultimo, a differenza di Bill, non soffre più di tanto per la morte di Mandy (Julienne Davis), una prostituta tossicodipendente che il medico aveva soccorso nella stanza di Victor, perché, nella sua ottica, ce ne sono tante così a questo mondo.<br />
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Bill è un uomo che si muove fra oggetti alieni e personaggi alieni, secondo una certa tradizione letteraria che ha avuto i suoi esiti più noti nella fantascienza. Ma Kubrick, a differenza della fantascienza e dei suoi eroi positivi e negativi, ci rende più alieno di tutti il protagonista stesso, evitando di costruire un dualismo fra bene e male. La diversità etnica, così copiosa anche nella più tranquillizzante cinematografia americana (per esempio i film comici e le commedie), diventa qui inquietante attraverso meccanismi di trapianto di stilemi teatrali differenziati (Marion Nathanson da una parte e Milich dall’altra), del cinema orientale (i due pedofili giapponesi), del thriller americano (il pedinatore) ecc.<br />
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La sensualità è annullata attraverso un meccanismo espositivo che fa del corpo null’altro che un oggetto ammirabile, senza tangibilità e scambio reciproco (senza spirito), in cui il sesso è ridotto a simbolo, sia come surrogato all’infedeltà mentale della moglie di Bill, Alice (Nicole Kidman), sia come rito collettivo dell’atto copulatorio senza intimità e piacevolezza, come viene evidenziato dalla scena in cui un uomo in piedi e una donna supina su un uomo, che la sostiene come un tavolino, si impegnano in una congiunzione beffarda, dalla ritmica ginnica: i due sono nudi e mascherati, e il gesto meccanico reiterato non dà evidentemente alcuna connotazione individuale ai personaggi, rendendo «mascherata», addirittura «vestita», la loro nudità e il loro gesto.<br />
<br />
Le molte nudità del film perdono il carattere di oggetto piacevole, pur rimanendo oggetto del desiderio. È perciò significativo che lo spogliarello iniziale di Alice sia sensuale, poiché esso precede il trauma di Bill, quel suo aprire gli occhi sulla realtà senza sapersi più orientare. Nella loro forma recitativa i personaggi, a partire da Bill, non costituiscono che stereotipi dell’umanità urbana. L'effetto d'eco delle voci, isolandole, smussa l'accavallamento di battute fra i personaggi, al punto da produrre il risultato del recitativo del teatro classico: prima parlo io, quando ho finito parli tu, quando hai finito tu parlo io ecc.<br />
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In effetti, Kubrick supera le concezioni recitative del teatro classico e del realismo cinematografico hollywoodiano, seguendo una terza via recitativa, quella del cinema <i>hard-core</i>, rendendo una piattezza dilettantesca ai personaggi e giocando con scenette di cattivo gusto di certo teatro istrionico e di certe produzione <i>hard</i> (anzitutto la francese). Un esempio della voluta piattezza recitativa del cinema hard la si osserva in film curatissimi come <i>Stavros</i> di Mario Salieri, in cui all’impegno scenografico, fotografico, costumistico, del truccatore ecc. non corrisponde un’adeguata interpretazione realistica da parte degli attori.<br />
<br />
Questo modello, impiegando gli elementi meno verosimili dei migliori film tradizionali e hard (poca sensualità e poca caratterizzazione interiore), si avvale di una piattezza compositiva tenuta a una soglia di disturbo elevata, fino a produrre il senso d’alienazione desiderato. Ciò che doveva perdersi, per Kubrick, era la verosimiglianza del mito contemporaneo, così copiosamente costruito ovunque attraverso il carattere fittizio della rappresentazione.<br />
<br />
Tutto come aperta denuncia dell’assuefazione del dolore dell’uomo contemporaneo, che, come il protagonista, non sa rimuovere il disturbo di drammi quali i tradimenti affettivi e sociali, la tossicodipendenza, la prostituzione, la sieropositività all’Hiv, la pedofilia, i suicidi, la perdita dei congiunti e la necrofilia, aggiungendo a questi quello di credersi anestetizzato fino al pianto finale. La società caricaturata da Kubrick è già la nostra.<br />
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[<i> puoi scaricare e leggere il racconto nel formato editoriale originale cliccando su: </i><a href="http://nicoladugo.tripod.com/pdf/cinema/eyes-wide-shut.pdf">scarica PDF</a> ]<br />
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[pubblicato su <i>Notizie in... Controluce</i>, n. VIII/12, dicembre 1999, p. 20.]</div>
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<br /></div>Nicola d'Ugohttp://www.blogger.com/profile/15504174801531073127noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-844814479105817641.post-72427615229391965942009-06-14T19:09:00.013+02:002012-04-15T23:58:20.035+02:00Jean-Pierre Jeunet: "Il favoloso mondo di Amélie"<div style="text-align: justify;">
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgfQANjsxiNpwSM6PBoUg9FMIQoF9Eolduj8sNxlMaTGxmsKxu1toc7Z5eW-HIPWHhV5HD4XZVDUSigx3gXB4MZOU4efkGZG9cVSbVeD39WXD49jN5EEFEB0aAzd1kCn-WQTrhZuJ4OjK8/s1600-h/Amelie.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgfQANjsxiNpwSM6PBoUg9FMIQoF9Eolduj8sNxlMaTGxmsKxu1toc7Z5eW-HIPWHhV5HD4XZVDUSigx3gXB4MZOU4efkGZG9cVSbVeD39WXD49jN5EEFEB0aAzd1kCn-WQTrhZuJ4OjK8/s200/Amelie.jpg" /></a></div>
Delicato e comico a un tempo, <i><a class="style6" href="http://www.cinematografo.it/bdcm/bancadati_scheda.asp?sch=40253" target="_blank">Il favoloso mondo di Amélie</a></i> del regista francese <a href="http://it.wikipedia.org/wiki/Jean-Pierre_Jeunet">Jean-Pierre Jeunet</a> racconta la storia di una ventiduenne parigina nata negli anni settanta, le reazioni all’ambiente in cui vive e le sue difficoltà. Il film si apre con un’esilarante introduzione dell’origine familiare, della nascita e dell’infanzia di Amélie (<a href="http://www.audreytautou.it/">Audrey Tautou</a>), da cui apprendiamo i drammi personali della bambina: il padre (Rufus) che ha contatti fisici con la figlia solo una volta al mese durante le preoccupate visite mediche, la madre che viene uccisa sotto gli occhi della bambina, il pesciolino che salta fuori dell’acqua in cucina ed altri eventi di domestica drammaticità.<br />
<br />
E già qui il dramma si presenta come risposta soggettiva, eco interiore dell’oggetto esterno, per cui l’elencazione descrittiva ritmicamente serrata di eventi indifferenziati per drammaticità pone sullo stesso piano quello che un contesto d’ordine porrebbe, nel genere drammatico, secondo una gerarchia di valori. Su questo meccanismo di collocazione degli eventi esterni su uno stesso piano di valore, cui corrisponde una accentuata risposta emotiva dei personaggi, si fonda un aspetto dell’ironia del film.<br />
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Gli eventi che capitano alla famiglia sarebbero tragici, se non fosse che sono tutti rappresentati con scanzonata comicità, in cui la successione ritmica toglie peso all’immedesimazione necessaria ad approfondire ogni dramma introdotto, che lascia subito il posto al successivo. Ne consegue che ogni evento presenta un doppio segno opposto, per cui maggiore è la tragedia per i personaggi, più comica appare agli spettatori. Ed è proprio qui che la costruzione della storia ha un pregio raro: quello di mostrare come il punto di vista opposto fra la percezione di Amélie e quella dello spettatore abbia una sua coerenza nell’uno, nell’altro piano e nell’incontro fra biografia (di Amélie) e spettacolo (il nostro). Mentre per noi passano in rassegna personaggi buffi per il loro disagio, questi trasferiscono il proprio disagio sugli altri, attribuendogli la causa dei propri mali.</div>
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Nel caso di Amélie, questa pratica mentale che ha avuto dapprima fortuna nel ristretto circolo familiare, e poi in tutta la <a href="http://it.wikipedia.org/wiki/Montmartre">Montmartre</a> rappresentata, è ereditata quale modo di agire, e vi svolge un ruolo fondamentale la colpa e lo spirito di sacrificio, la prima da imputare agli altri, il secondo da sostenere da sé. La colpa viene quindi ad essere di segno opposto rispetto al senso di colpa, al peccato tradizionale: il colpevole è il familiare, il conoscente o lo sconosciuto, e la colpa degli altri è generalmente connessa all’incidente piuttosto che alla malizia. Quando non lo è, essa appare come attribuibile al carattere deformato e ottuso di alcuni personaggi (un vicino di casa, un fruttivendolo), a cui basterebbe dare una sonora lezione.</div>
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Questo meccanismo della colpa partecipato da Amélie viene superato nell’arco del film, mettendo da parte se stessa per pensare a come spezzare il filo delle difficoltà entro cui gli altri si sono aggrovigliati senza sentore d’uscita.</div>
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Entrando di soppiatto nelle loro esistenze, la ragazza agisce anonimamente, dapprima in modo casuale: la polverosa scatola di un bambino, rinvenuta in un muro domestico, riporterà un cinquantenne alla memoria dell’infanzia e al superamento dei propri problemi familiari; una voce fatta circolare ad arte farà innamorare due ossessionati dai loro mali immaginari; un nano da giardino, che viaggia per il mondo e manda al sedentario papà di Amélie le foto di sé nei luoghi visitati, gli farà percepire la bellezza e fruibilità del mondo; la lettera falsa di un marito fedifrago, recapitata con trent’anni di ritardo, cambierà la storia della portiera infelice; la crema per i piedi sostituita al dentifricio darà modo di esprimersi all’oltraggiato fratello di un prepotente fruttivendolo ecc. Tutte monellerie, se non fosse che ora vanno a favore dei più sfortunati. Monellerie: poiché questo modo di agire era in Amélie, fin da bambina, come forma di vendetta agli oltraggi subiti.</div>
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Nel giorno della morte di <a href="http://it.wikipedia.org/wiki/Diana_Spencer">Lady D.</a>, Amélie inizia un nuovo rapporto con la realtà, un rapporto non più in direzione di sé (la vendetta e le monellerie), ma dedito agli altri. Il film gioca spesso su questo piano ulteriore, mostrando una serie di eventi famosi che entrano nelle esistenze individuali. Ma, nei molteplici ribaltamenti del film, per Amélie il giorno famoso è importante per il rinvenimento della scatola sconosciuta.</div>
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Nel suo intreccio minuzioso, il film rimanda in continuazione lo scioglimento definitivo delle situazioni: questo coincide, per Amélie, con il non venire a capo del suo rapporto con la realtà, mentre le vite degli altri cambiano grazie a lei. Del resto, il mancato definitivo superamento del disagio degli altri è, nel microcosmo della ragazza a Montmartre, motivo di una dedizione infinita di sé agli altri, finché la propria esigenza non reclama un’anteposizione di sé a loro (indicata finalmente nella scena in cui Amélie è disinteressata alla gioia procurata alla portinaia).</div>
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Anche l’evento famoso, mediatico, collettivo, prende valore nell’esistenza immaginativa individuale, in una rielaborazione dell’evento e dei segni che non ha più alcun significato collettivo, che non è più fruibile con lo stesso significato nella circolazione comunicativa fra i ricettori della trasmissione: per Amélie la finestra di un seminterrato è la fossa di un suggeritore teatrale, una partita di calcio il punto debole di un nemico; per la madre, un’interpretazione cinematografica è l’odiosa esibizione di autisti che non guardano la strada; per il padre, un nano da giardino è un’icona da porre sulla tomba della moglie ecc.</div>
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Il film è ricco di spostamenti dell’ordine e del rapporto fra le cose, al punto da produrre tutta una serie di eterotopie, di accostamenti di oggetti mentalmente riservati a insiemi contestuali diversi (un cavallo al galoppo e una gara di ciclismo per strada, per esempio). Questo è fondamentale per l’avvicinamento intimo di alcuni personaggi, attraverso un linguaggio che non è fatto di temi comuni, ma di una rielaborazione dei dati collettivi (fotografie, dipinti, film ecc.). Jean-Pierre Jeunet precisa meglio questo punto: non è sulla pittura o sulla fotografia che si fondano la frequentazioni del pittore e del fruttivendolo, del riparatore di macchine fotografiche e del collezionista.</div>
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L’aspetto più segnatamente eterotopico mette in luce, attraverso la produzione, fruizione e invadenza dell’immagine, la loro rielaborazione in un ordine di idee, di associazioni mentali che potremmo anche chiamare con il termine di <i>sensibilità</i> nell’uso corrente. Il codice di rielaborazione del dato è interno, non sociale né oggettivo, quale collegamento a una memoria diversamente configurata nei personaggi. Non appare cioè necessario che la dominante memorizzata del singolo oggetto sia anche oggettivata, mentre altri aspetti lo sono per quel quanto basta che basta a una sufficiente condivisione dello stato del mondo.</div>
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Nel caso dell’eterotopia, non si tratta di eccezionalità dell’evento o dell’accostamento degli oggetti. In un film inquietante come <a href="http://it.wikipedia.org/wiki/Seven"><i>Seven</i></a>, per esempio, l’ordine delle cose non ha nulla di eteropico, al punto che il simbolismo che accompagna la violenza e l’orrore trova come pronta risposta degli investigatori la ricerca del codice d’accesso alla sequenza dei delitti: l’ordine del mondo è rispettato, lo spettatore ha già preventivamente la possibilità di attribuire a un oggetto, a un segno, a una situazione un valore di negatività, perfidia, pericolo, poiché la differenziazione fra i buoni e il cattivo (i poliziotti e l’assassino) rientra in un ordine di idee già culturalmente formato nello spettatore, mentre, sul piano narrativo, il codice d’accesso del serial killer è dato come esistente nello stato del mondo della <i>fabula</i> e rispondente a una gerarchia di valori del codice che gli investigatori cercano di individuare. Esso va solo ricostruito.</div>
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Ma cos’è fuori posto nelle foto del nano da giardino: il nano o il monumento alle sue spalle? L’immagine così fornita, senza una gerarchia del codice, non offre un ordine in cui interpretarla. Per farlo, occorrerebbe un sottocodice interpretativo, conosciuto da Amélie, ma non da suo padre.</div>
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La favola racconta il primo passo verso gli altri, l’affacciarsi sul mondo degli altri che, ammessa l’esistenza loro e delle relazioni reciproche al di là della propria vita, permetterà alla protagonista di guardare meglio la vita in genere e, successivamente, entrarci lei stessa. E anche di trovare l’anima gemella, ma gemella in compensazione: lei che agisce sulle storie altrui senza parteciparvi, e il collezionista Nino (<a href="http://it.wikipedia.org/wiki/Mathieu_Kassovitz">Mathieu Kass</a><a href="http://it.wikipedia.org/wiki/Mathieu_Kassovitz">ovitz</a>), che registra i segni degli altri senza partecipare alle loro storie (impronte, fotografie ecc.). Lei, continuando il proprio anonimo atteggiamento esterno, da fuori della storia di una vita, ma abbassando sempre più il gradiente d’anonimia, lascerà impronte di sé, icone fotografiche, veri e propri messaggi, affinché lui venga stimolato a conoscere chi è dietro l’immagine di lei piuttosto che a costruire storie di persone inconsce della propria produzione segnica: affinché non sia lo sguardo a intrecciarsi con una storia, ma, forse, la propria storia ad intrecciarsi con quella di un altro.</div>
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Gioco inequivocabilmente erotico per i due, e gioco perverso, se non fosse che è il percorso del loro avvicinamento, l’uscita da un isolamento ereditato dall’infanzia, che non viene mai reso tragicamente nel film, ma viene anzi caratterizzato da differenti registri (anzitutto comico, ma poi anche giallo, drammatico e sentimentale) tutti stemperati in una delicata ironia. In fin dei conti, ciò che Amélie trova in Nino non è che un testimone, nel mondo, della sua individualità, colui con cui possa comunicare senza fraintendimento, che la faccia sentire compresa, ossia normale nel suo modo di percepire sé e il mondo. La seconda conseguenza, quella del piacere, viene dalla prima.</div>
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Notevole è l’uso dei mezzi di comunicazione strettamente legati alla storia. Attraverso la televisione si ingigantisce la colpa della bambina Amélie accusata da un signore di aver causato un incidente stradale abbagliando il conducente con una macchina fotografica (lei si vendicherà sabotandogli il televisore durante un imperdibile incontro di calcio). Nella caratterizzazione dei personaggi scorrono le immagini di classici del cinema, Amélie sogna ad occhi aperti di vedere il proprio funerale alla televisione come una filantropa compianta da una folla infinita (di quei giorni furono i funerali in mondovisione di Lady D. e di <a href="http://it.wikipedia.org/wiki/Madre_Teresa_di_Calcutta">Madre Teresa di Calcutta</a>), l’immagine di se stessa come <a href="http://it.wikipedia.org/wiki/Zorro">Zorro</a> ricorre spesso ecc. Televisore, macchina fotografica, videocamera (a cui si aggiunga il servizio postale e gli aerei) non sono solo oggetti funzionali, servizi tecnologici: entrano a pieno titolo nelle avventure immaginative dei personaggi.</div>
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Non è un caso che due personaggi essenziali nello snodo dell’intreccio siano un pittore, per il quale vita e realtà si incontrano (nella sua solitudine, egli fa copie annuali di un dipinto dell’impressionista <a href="http://it.wikipedia.org/wiki/La_colazione_dei_canottieri">Renoir</a> ed è colui che riconosce i moventi interiori di Amélie), e un misterioso personaggio che lascia ripetutamente le proprie fototessere nelle relative cabine: uno che vuole affermare la propria esistenza fotografandosi spesso? sarà un morto? o uno che ha paura di invecchiare, e controlla periodicamente il suo aspetto fisico? Certo qui la fantasia di Amélie subirà un primo contraccolpo, e il sentore di giallo si tramuterà in un sorprendente sbocciare dell’ilarità (per lei prima, come per noi più tardi). A dimostrazione che la stupidità può talvolta risultare utile, con la realtà che si colora di tinte meno oscure della fantasia, sorprendendola.</div>
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Letteraria nella sua esposizione (subito dichiaratasi attraverso il narratore fuoricampo), la tessitura del film (intreccio, ritmica e registri) è in linea con certa narrativa ottocentesca. Fatte le debite distinzioni circa la poetica generale e limitandoci solo ad alcuni caratteri di somiglianza (a livello di tassonomia piuttosto che di sistema), molti elementi del film sono riscontrabili nelle ottocentesche <a href="http://it.wikipedia.org/wiki/Le_novelle_del_compianto_Ivan_Petrovic_Belkin"><i>Novelle del defunto Ivan Petrovič</i> </a><i><a href="http://it.wikipedia.org/wiki/Le_novelle_del_compianto_Ivan_Petrovic_Belkin">B</a></i><i><a href="http://it.wikipedia.org/wiki/Le_novelle_del_compianto_Ivan_Petrovic_Belkin">elkin</a> </i>di Aleksandr Puškin: rapido passaggio da un registro emotivo all’altro, dicotomia di realtà e sogno tenute insieme da una delicata ironia, divergenza e convergenza di emozione fra i personaggi e il lettore, un destino che porta all’eccezionalità degli eventi oltre le previsioni dei protagonisti, e ogni piccola cosa, ogni dettaglio, a sostenere una realtà improbabile, ma mai impossibile.</div>
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Ne <i>Il favoloso mondo di Amélie</i>, il cui titolo originale è, tradotto, 'Il favoloso destino di Amélie Poulain', si gioca tutto su un verosimile portato al limite, che ha un sentore di favola, al punto che la realtà materiale, così essenziale all’economia narrativa del film, si intreccia con il sogno ad occhi aperti, in un volo a piedi per aria tipico dei nostri pensieri meno canonizzati. Per trovare risposte a sé in un contatto con gli altri, Amélie mette da parte il proprio mondo inventato dalla realtà dell’esperienza di bambina, in un’<i>epoché</i> d’azione da cui prima o poi finisce per uscire lei stessa, facendosi coinvolgere in prima persona. Le battute e le situazioni del film non sono mai delle trovate, messe lì per colpire lo spettatore, senza nesso stretto con la storia. Ognuna tiene l’altra, e tutte servono a raccontarla.</div>
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L’attribuzione delle proprie difficoltà fuori di sé (ad altri o altro) da parte dei personaggi rappresentati è una caratteristica ricorrente del film, quasi a voler sottolineare un elemento culturale (che la storia cerca a suo modo di superare) insito nel loro modo di agire, trasferibile come trasmissione semantica e come strumento di reazione dall’uno all’altro personaggio. Da un lato questo abito mentale causa la loro insofferenza, dall’altro indica un modo di vivere fuori di sé anziché all’interno di sé: a parte il caso eclatante di Amélie, abbiamo una rassegna di casi analoghi nell’avventore geloso, nella tabaccaia allergica, nello scrittore incompreso, nel fruttivendolo infastidito, nella moglie tradita, nella proprietaria zoppa ecc.</div>
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Si tratta di personaggi disagiati o malati, comunque insofferenti, e forse, proprio nell’incontro della narrazione fittizia con una topografia reale, nel voler ambientare a Montmartre la storia, si crea un incastro poco adatto alla favola e più adeguato alla satira, poiché proprio nella costruzione della favola ciò che dovrebbe mancare è un’ambientazione reale troppo particolareggiata, nella misura in cui si rappresenta una collettività specifica e non tanto alcuni personaggi oscuri che intrecciano le loro anonime relazioni nelle grandi città moderne: i quest’ultimo caso, i personaggi salgono sulla ribalta di una storia come dalla massa che non sa nulla di loro, e si avverte con più nitore la distinzione fra esempio e caso specifico (tutti i personaggi sono così <i>vs. </i>solo questi personaggi sono così).</div>
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Nel suo modo di procedere, Jeunet finisce per descrivere una collettività precisa, che, letteralmente presa, finirebbe per avere le caratteristiche dei personaggi tipo di Montmartre: cosa di cui non c’è necessità se si vuole disporre del potere suggestivo e allusivo della favola, altrimenti sarebbe stato necessario descrivere, anche solo di passaggio, i personaggi di Montmartre quali essi sono nei nostri soggiorni a Parigi. Questo, naturalmente, se l’intenzione è quella di applicarsi alla favola senza ricostruirne, ridefinirne o distruggerne genere.</div>
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A prescindere da questo aspetto e cercando di rimanere sul testo cinematografico, la famiglia è descritta da Jeunet come un insieme di componenti che si limitano nel rapporto con gli altri, attribuendo le proprie limitazioni al resto dei familiari: lo si nota nella madre del fruttivendolo che sostiene di dover pensare a tutto lei, o nel padre di Amélie che dichiara di non aver viaggiato con la moglie a causa della fittizia cardiopatia della figlia.</div>
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Il ribaltamento di segno delle monellerie di Amélie (dalla vendetta all’aiuto agli altri) acquista un sapore d’uscita dal torpore collettivo, in una dimensione in cui interviene la novità eccezionale, costruita a bella posta, che finalmente coinvolge personaggi inebetiti dall’evento esterno, dal dovere, dall’obbligo mentale che si sono imposti secondo regole sociali. Sotto il velo della comicità c’è la palese motivata difficoltà dei personaggi, che non sanno uscire dal meccanismo perverso del loro microcosmo, in cui la scatola di un bambino sembra giungere finalmente da un altro mondo, così come la falsa lettera e le cartoline inviate dall’estero da una hostess. Non è un caso che il pesciolino rosso cercasse sempre di scappare dalla vasca.</div>
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L’assenza di orpelli e tempi morti fa di questo film una deliziosa commedia, in cui non si demanda la nostra partecipazione all’azione concitata, al gesto clamoroso e al suspense prolungato, ma a un gustoso intreccio che ci stupisce. E che, ribaltando di segno gli eventi, trasporta la tragedia nel comico, fino a risolvere il comico nel bacio finale, in cui il lieto fine delle favole coincide con la vita reale, in una sequenza particolarmente lunga, poiché ora l’evento non è il segno di una cosa, ma se stesso così come è vissuto (può essere un bacio affettuoso o appassionato,non un bacio sentimentale).</div>
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È questo il punto d’incontro della storia e dello spettacolo che ci aveva fatto ridere. Su questo piano, i drammi dei personaggi non sarebbero più ilari, perché il registro è cambiato e si è persa l’ironia. Si potrebbe dire che già da questa scena, anche la favola viene meno e immaginare che, a questo punto, la filantropia di Amélie non abbia più ragione di essere. La filantropia, nella storia, è una mera illusione, che la ragazza abbandona nella cocenza del suo essere chiamata a intrecciare la propria storia con quella di Nino, in prima persona. Anche la filantropia quindi assume un aspetto personalizzato, si fa strumento per Amélie, anziché essere un alto valore in cui credere.</div>
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La bravura di Jeunet sta nell’aver costruito attentamente un microcosmo fittizio, in cui la marginalità dell’esistenza è all’interno della società stessa, non solo nelle sue frange estreme, nelle figure sporche, nei ribelli stereotipati, nei disadattati che recano con sé i segni esteriori del dolore e del disagio, tutto quello che risalta all’occhio con più facilità e che è, sì, degno di rappresentazione e attenzione da parte nostra, ma che è anche più facilmente suscettibile di una retorica del sociale, spesso <i>trendy</i> e rituale piuttosto che meditata.<br />
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Nel buffo procedere del dramma fiabesco, la società contemporanea è descritta attraverso continui spostamenti del punto di vista, da un personaggio all’altro allo spettatore, che il registro comico, pur estetizzando nel riso, non stigmatizza. Ma evita di ricorrere al luogo comune, all’ordine prestabilito, alle coordinate di un mondo disagiato che finge di non essere di gran lunga perfettibile, o crede di esserlo solo attraverso una collettività che non ha affatto alcuna consapevolezza di sé e dei propri membri.<br />
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Bravi tutti gli interpreti, specialmente la buffa e graziosa Audrey Tautou, e particolarmente felice la regia di Jean-Pierre Jeunet (già regista di <i>Delicatessen</i>), nell’aver dosato sapientemente la miscela interpretativa di personaggi spesso strampalati, nell’aver saputo tenere uniti i diversi movimenti emotivi del film in registri che non indulgono mai alle facili soluzioni stereotipate dei temi (emblematica la tenuta dell’atmosfera fiabesco-quotidiana e comico-seria nel sex shop), nell’aver impiegato con pertinente equilibrio gli effetti visivi e nell’aver fatto ricorso a un montaggio dal ritmo serrato, senza tempi morti.</div>
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Il film, rifiutato a Cannes, ha vinto quattro Cesar e ha ottenuto cinque candidature agli Oscar 2002: miglior film straniero, sceneggiatura originale (Guillaume Laurant), scenografia (Aline Bonetto), fotografia (Bruno Delbonnel) e suono (Vincent Arnardi e Guillaume Leriche).<span style="font-size: 85%;"><i> </i></span><br />
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<span style="font-size: 85%;">[pubblicato su <a href="http://www.controluce.it/"><span style="font-style: italic;">Notizie in... Controluce</span></a>, n. XI/7, luglio 2002, pp. 14-15.]<br />
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Due trailer del film:</span></div>
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgx9UtLXy9FfEUVMVRxcY-MEVAfwrwm0asY6QMbUtiNuoESxrrmnOBfVuvclf_LuNCDwpDkgB8dz-8410t7EEoN_bRydctsm0qRY3ELao3X0U7MDlzpCAkdoxSVzr52Mo_95vy84nFNV5w/s1600-h/sleepyhollow.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgx9UtLXy9FfEUVMVRxcY-MEVAfwrwm0asY6QMbUtiNuoESxrrmnOBfVuvclf_LuNCDwpDkgB8dz-8410t7EEoN_bRydctsm0qRY3ELao3X0U7MDlzpCAkdoxSVzr52Mo_95vy84nFNV5w/s200/sleepyhollow.jpg" /></a></div>
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Schizzi di sangue ovunque, un bambino ucciso con la leggerezza con cui si uccide un moscerino, streghe seducenti e un malvagio sicario senza testa. L'ultimo film di <a href="http://www.timburton.com/">Tim Burton</a> (il regista di <i>Ed Wood </i>ed <i>Edward Mani di forbice</i>, sempre con <a href="http://it.wikipedia.org/wiki/Johnny_Depp">Johnny Depp</a>) è un fumettone girato con perizia, ma senza alcun approfondimento delle molteplici tematiche che attraversano la storia.<br />
<br />
Si direbbe che l'influenza del produttore esecutivo del film, Francis Ford Coppola, abbia prestato le atmosfere del suo <i>Dracula </i>a un film tratto da ben altra narrativa, quella divertita dello scrittore ottocentesco Washington Irving, autore de "La leggenda di Sleepy Hollow". Ma se nel racconto di Irving si trattava di narrare la vicenda di un maestro del Connecticut andato a vivere nella "valletta sonnolenta" di Sleepy Hollow, vicino a New York, in mezzo a una trasognata e fiabesca comunità olandese, qui il detective Ichabod Crane (Johnny Depp) viene mandato per punizione nella comunità per indagare su una serie di particolari delitti: i corpi ritrovati sono tutti senza testa.<br />
<br />
La conclusione a cui l'induttivo e scientifico Ichabod Crane non vuole arrivare è che sia tutta colpa del leggendario cavaliere senza testa, un inquietante personaggio assetato di sangue, decollato decenni prima dalle sue vittime sopravvissute. Coi denti acuminati come un'arma d'acciaio, quasi si trattasse di un personaggio tratto dal film giapponese <i>Tetsuo</i>, Christopher Walken, che interpreta la parte del cavaliere immortale, va in giro a mozzare teste alla velocità di un treno.<br />
<a name='more'></a><br />
Queste scene del cavaliere di per sé sono molto affascinanti, peccato che nel film non ci sia alcun messaggio e neppure la soddisfazione di uscire dal cinema illesi dopo essere scampati a un paio d'ore di tensione. Troppi sono i temi proposti da Burton, e per tenerli tutti insieme ci voleva un lavoro scrupoloso, senz'altro più meditato da offrire allo spettatore. Il taglio adottato è quello fumettistico, per stereotipi, dove lo sgorgare di sangue è accompagnato da scene buffe, con Johnny Depp che sembra Lupin III.<br />
<br />
<a href="http://it.wikipedia.org/wiki/Christina_Ricci">Christina Ricci</a>, nella parte di Katrina Van Tassel, una seducente, garbata, civettuola e ricca ragazzina, sostiene bene il personaggio, con un misto di ammaliamento erotico e stregoneria: ma anche qui si tratta di mettere insieme due figure (la donna seducente e la strega) che la cultura maschilista conosce a fondo da più di un millennio. In questo caso, si capisce che l'introduzione della donna strega è fatta più per questioni di presa sul pubblico (con la morale che dietro una fanciulla disponibile non si nasconde necessariamente una strega) che per segnalare cosa significa essere interessati all'esoterismo e quale dissidio e danni abbia comportato l'associazione di malafemmina e strega nella storia umana. La Maddalena evangelica pare non aver insegnato molto in proposito, ma Tim Burton poteva provarci.<br />
<br />
Anche la figura del cavaliere come sicario, manovrato da qualcuno, poteva essere interessante per suggerire qualche riflessione sulla condizione di chi, perduta letteralmente la testa, commette dei crimini efferati per salvare se stesso. Johnny Depp, pur bravo nel tenersi in un ruolo fatto di una mimica comica, a partire dalla fifa che pare sopraffarlo, si scopre aver rimosso una vicenda inquietante del passato. Qui il passato tremendo che lo ha segnato quand'era bambino è dato dalla morte più truculenta di tutte occorsa alla madre (torturata a morte dentro un'armatura) per mano del marito. Questo giustificherebbe l'idea del detective di cercare dietro lo spettro del cavaliere una persona in carne e ossa che lo muove. Peccato che il passato emerga come un sogno, come allusione al subconscio che Freud avrebbe individuato un secolo dopo. <br />
<br />
Le scene concitate, truculente e divertite funzionano, nel loro grottesco modo di criticare l'America, nei film di <a href="http://it.wikipedia.org/wiki/Russ_Meyer">Russ Meyer</a> (<i>Sotto la valle delle superfemmine</i>, <i>Up!</i> e <i>Ultravixen</i>) in cui l'uomo era ridotto alla forza bruta del maschio e della femmina, secondo un conflitto antico, ma trasformato dal femminismo e dall'antifemminismo degli anni Settanta, dalla lotta brutale tra tradizionalismo e spirito libertario, naturistico e nudistico, fra comunità e individualità, provocatoriamente scartando ogni discorso sul perbenismo americano.<br />
<br />
Qui invece, per Burton si tratta di richiamare temi alla moda (quelli che trovereste nelle info dei giovani utenti delle chat di tutto il mondo): da esoterismo, stregoneria, misteri, natura e poesia al crimine efferato che attende dietro l'angolo ogni americano, al progresso che avanza con le nuove tecnologie, incomprese all'inizio, ma che funzionano in seguito, all'erotismo, all'amore e alla paura del maschio di essere irretito, ammaliato e ingannato dalla donna gentile e propositiva.<br />
<br />
Cinematograficamente parlando la fotografia e il montaggio sono buoni, anche se l'iconografia appare scontata. Il messicano Emmanuel Lubezki, candidato all'Oscar per questo film come migliore direttore della fotografia, ha dovuto lavorare tra fumi, lampi e rapidi movimenti, riuscendo a mantenere ben delineate le figure dei personaggi, quasi a disegnarle e a mitigare il sovraccarico baroccheggiante dei costumi e della scenografia di Rick Heinrichs e Peter Young, che gli è valsa un Oscar. Inoltre sono stati impiegati 300 effetti visivi di immagini ridigitalizzate, in gran parte per far scomparire dalla pellicola la testa dell'attore a cavallo e ridisegnare al suo posto gli sfondi e l'interno del collo del cavaliere. Per questo l'americana Ilm e l'inglese Cfc sono dovute ricorrere a espedienti innovativi. <br />
<br />
È che il prodotto è fatto per un vasto pubblico che mi pare non abbia molto da divertirsi. Sembra di seguire un cartone animato, con scenette congegnate per raccontare una fiaba che ha perduto tutta la tematica della paura americana che era nel racconto di <a href="http://it.wikipedia.org/wiki/Washington_Irving">Irving</a>. Lì si trattava di dire, né più e né meno come nella <i>Lettera scarlatta</i>, ma in maniera non così vigorosa, che il sottosuolo dell'America conserva i resti di un passato che precede i coloni, e che se qualcosa succede in una comunità c'è qualche mostro o spirito maligno che vi si aggira.<br />
<br />
Questo è il senso e la preoccupazione più significativa della letteratura americana, fin dai suoi albori, e che l'americano raramente dimentica. L'Overlook Hotel dello <i>Shining </i>di <a href="http://www.archiviokubrick.it/">Stanley Kubrick</a> non era forse costruito su un vecchio cimitero indiano? Sono le ossa di un passato che torna, con cui gli americani hanno sempre da fare, ma che almeno nel <i><a href="http://it.wikipedia.org/wiki/Dracula_di_Bram_Stoker">Dracula</a> </i>di Coppola aveva un senso: si trattava di raccontare l'amore e la tenerezza fra un ragazza e un uomo malvagio per il consorzio umano, oltre al fatto di collocare volutamente il pericolo in Europa (Transilvania) e non in America, cosa che aveva già fatto con <i>Apocalypse Now</i>, un film tratto da un romanzo sorto da preoccupazioni inglesi. Meno meditate erano in <i>Dracula </i>le ovvie allusioni all'Aids, ma divertente e pertinente il ritorno di un Anthony Hopkins affamato di carne umana, dopo <i>Il silenzio degli innocenti</i>.<br />
<br />
A differenza di Coppola, Burton resta ancorato alle favole che gli americani continuano a raccontarsi sul Bene e sul Male, ma senza aggiungere nulla di nuovo. Ne <a href="http://www.sleepyhollowmovie.com/"> <i>Il mistero di Sleepy Hollow</i></a> si risente di questi due film costruiti con perizia psicologica e che, a loro modo, puntano l'attenzione su tematiche interessanti, quale con poesia e ricchi rimandi alla pittura del Settecento (Dracula), quale in maniera decisamente cruda (<i>Il silenzio degli innocenti</i>). Qui ci restano scenette amorose da soap opera fra Johnny Depp e Christina Ricci, corse mozzafiato dal fitto montaggio, improbabili lotte da samurai e una miriade di allusioni buone per farci un film in seguito. <br />
<br />
È come se <i>Il mistero di Sleepy Hollow </i>fosse la bella realizzazione di una sceneggiatura buttata giù senza le documentazioni, le revisioni e l'eliminazione dei temi in esubero di un film fatto bene. Neppure la tensione e la risata sanno prendersi a braccetto, come faranno invece Ichabod e Katrina che, giunti alla fine della loro avventura campestre, si ritroveranno per le strade lastricate della New York del 1800, a perdersi pieni di speranza fra la folla animata.<br />
<br />
[<i> puoi scaricare e leggere l'articolo nel formato editoriale originale cliccando su: </i><a href="http://nicoladugo.tripod.com/pdf/cinema/il_mistero_di_sleepy_hollow.pdf">scarica PDF</a> ]<br />
<br />
[pubblicato su <i>Notizie in... Controluce</i>, n. IX/4, aprile 2000, p. 17.]</div>
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</div>Nicola d'Ugohttp://www.blogger.com/profile/15504174801531073127noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-844814479105817641.post-54035074596746830472009-06-14T10:33:00.015+02:002012-04-11T12:09:59.855+02:00Mira Nair: "La fiera della vanità"<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiRUdtumwuVWJBNtMWmCqy-HWjbc3gM4KVizcLuhoymKMq1gbD9Oz2ck6JmZGu-AHngphF-k6p7RXtzeH0vv-aX3_jDpzO7lDNNUjgpIKhN6ctYEQYnMdMxJU8u6V7RUrXkZox9d6W6ZVg/s1600-h/vanity_fair.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiRUdtumwuVWJBNtMWmCqy-HWjbc3gM4KVizcLuhoymKMq1gbD9Oz2ck6JmZGu-AHngphF-k6p7RXtzeH0vv-aX3_jDpzO7lDNNUjgpIKhN6ctYEQYnMdMxJU8u6V7RUrXkZox9d6W6ZVg/s200/vanity_fair.jpg" /></a></div>
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Tratto dall’omonimo romanzo di William Makepeace Thackeray, <i><a href="http://www.eaglepictures.com/Extra/miniSiti/vanity/">La fiera della vanità</a> </i>(<i>Vanity Fair</i>, GB-Usa, 2004) della regista indiana <a href="http://it.wikipedia.org/wiki/Mira_Nair">Mira Nair</a> è un film melenso, con una pessima sceneggiatura, prolisso nelle scene, piatto nell’evidenziazione dei dettagli fondamentali per l’intreccio, improbabile nella recitazione, stucchevole nella fotografia, superficiale nell’introspezione dei personaggi, per nulla coinvolgente nel commento musicale, poco emozionante nel complesso.<br />
<br />
Nel film c’è di tutto, e tutto appare come arruffato, e se questo arruffamento era inteso per farci vivere nella giostra di vicende ambientate in una svolta epocale della modernità l’intento non è affatto riuscito. La pellicola inscena solo sparsi rimasugli di quell’epoca brillante, piena di avvenimenti, emozioni, illusioni e delusioni, che fu il Romanticismo. L’ambientazione de <i>La fiera della vanità</i> è la nazione guida del suo tempo, la Gran Bretagna. Il film tocca, senza svilupparle, le tematiche più scottanti dell’epoca, dall’avvento della borghesia imprenditoriale all’imperialismo e alla globalizzazione, dalla questione femminile all’inesorabile declino della classe nobiliare.</div>
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Della chirurgica introspezione psicologica della protagonista e del “crudele bisturi” di <a href="http://it.wikipedia.org/wiki/William_Makepeace_Thackeray">Thackeray</a>, per usare un’espressione di Charlotte Brontë, non resta davvero nulla nel film. L’ascesa sociale di Becky Sharp (interpretata dall’attrice statunitense Reese Witherspoon), che attraverso l’astuzia e la buona educazione si affranca dalla condizione di diseredata, non è descritta attraverso una costruzione adeguata del personaggio, ossia una sedimentazione delle sue esperienze. Becky è vista piuttosto da un’ottica esteriore, attraverso battute e situazioni ripetitive che hanno l’effetto di annoiare piuttosto che di produrre un incremento dell’attenzione dello spettatore. E questo vanifica il grande impegno interpretativo di Witherspoon.<br />
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Tutte le tematiche del film restano solo accennate come dato esteriore, dai matrimoni d’opportunità all’amore romantico, dal curry ai pappagalli indiani, dalla ricerca di un titolo nobiliare alla paura di Napoleone da parte dei nobili. Dico “paura”, perché tale sembra nel film, mentre all’inizio dell’Ottocento si trattava di terrore e di un grande sentimento di angoscia, come sappiamo dalle tante lettere di aristocratici dell’epoca, e non perché si trovassero indifesi, come nel film, con l’Armata del Nord alle porte della città, ma a migliaia di chilometri, protetti dai propri eserciti.</div>
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Il guaio del film mi sembra consista in una mancanza di ispirazione, di tendenza a tracciare una direttiva di senso fatta di un numero limitato di dominanti tematiche. È un po’ quello che accade sul versante tecnico del film, con la fotografia nitida ma poco memorabile di Declan Quinn, con l’impiego di tecniche di offuscamento e messa a fuoco delle immagini ad esclusione alternata dei piani, che appare in contrasto con un uso estetico delle tecniche stesse, finalizzato a produrre un tipo particolare di emozione. Oltre a qualche trovata, tesa per lo più a far ridere, come l’uscita a natiche scoperte dell’anziana Lady Crawley (Meg Wynn Owen) dalla tinozza da bagno, in un film peraltro molto casto sul versante iconografico, alcune sequenze presentano situazioni promettenti, che finiscono sempre per deludere, fino a stancare.</div>
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Il film è stato scritto, e lo si vede, da una coppia di sceneggiatori televisivi (Matthew Faulk e Mark Skeet), affiancati da Julian Fellowes, premio Oscar nel 2001 per <i>Gosford Park</i> di Robert Altman: risente, infatti, di tutti i difetti tipici di un testo che voglia intrattenere un pubblico di massa piuttosto che far calare a capofitto lo spettatore nel dramma quotidiano di un personaggio avvincente come Becky Sharp. Il commento musicale, per cui si sarebbe potuto attingere dalla vasta produzione romantica con imbarazzo della scelta, sembra messo lì a forza, solo perché in un film in genere c’è anche la musica.</div>
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Il cast presenta attori di primissima scelta, come l’inglese Bob Hoskins (<i>Mona Lisa</i>; <i>Chi ha incastrato Roger Rabbit?</i>; <i>Il viaggio di Felicia</i>) e l’irlandese Gabriel Byrne (<i>Gothic</i>; <i>L’ora del tè</i>; <i>Stigmate</i>), ma non si sa se recitino con indolenza o con inutile bravura, limitati quali sono dai dialoghi troppo retorici e schiacciati dal pessimo uso della macchina da presa e del montaggio. Per cui il fiume di lacrime sul viso della brava Reese Witherspoon difficilmente sortisce qualche effetto emozionante.</div>
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Pessima la scena dei cadaveri della battaglia di Waterloo, che sembrano manichini piuttosto che puzzolenti corpi amati, carichi di quei paradossi della vita che ci rendono ancora vivi i testi di Shakespeare. E ancora peggiore, in India, la postura trasognata e ammiccante, da studio di posa, di William Dobbin (Rhys Ifans), spasimante incompreso di Amelia (Romola Garai), la migliore amica di Becky.</div>
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Si ride un po’ e, a parte una bella esecuzione canora di Becky, c’è poco da vedere, per chi non sia interessato alla scenografia, ai costumi o a qualche ilare scenetta. Forse a qualcuno non parrà troppo poco per un film di due ore e venti.</div>
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[pubblicato su <a href="http://www.controluce.it/">Notizie in... Controluce</a>, luglio 2005.]</div>Nicola d'Ugohttp://www.blogger.com/profile/15504174801531073127noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-844814479105817641.post-47858372858507658192009-06-14T09:15:00.020+02:002012-04-11T12:10:36.889+02:00Scott Coffey: "Ellie Parker"<div style="text-align: justify;">
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiV0h50QQljBeSy77bq8bLV5boDksYX4xgLxqW7RfHA6D5H_cZoQ1ADt2PidaJUk27Op0abghHXA_dBQPgSaN6ItpScPc7jspp7FRvk9SUdu1M0mMDXFH8TaXLLB3ePbwabyZDKsyN69dI/s1600-h/ellieparker.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiV0h50QQljBeSy77bq8bLV5boDksYX4xgLxqW7RfHA6D5H_cZoQ1ADt2PidaJUk27Op0abghHXA_dBQPgSaN6ItpScPc7jspp7FRvk9SUdu1M0mMDXFH8TaXLLB3ePbwabyZDKsyN69dI/s200/ellieparker.jpg" /></a></div>
Quello che caratterizza un film come <i>Ellie Parker </i>(2005) è l’apoeticità. Si indugia su un’emozione per pochi secondi, senza che venga approfondita. Certo, è difficile non vedere, in questo lungometraggio del regista esordiente Scott Coffey, gli esperimenti di Warhol degli anni sessanta, con il suo realismo documentaristico e parodico.<br />
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In <i>Ellie Parker </i>manca però il candore che imprimevano gli stilemi recitativi degli attori pop, in film come <i>The Nude Restaurant </i>(1967), in cui dal catastrofismo balenava, come per miracolo, la scintilla di un’umanità che, individuale qual era, impacciata e ridicola come la si poteva percepire, riusciva a evocare intimità comunicative e relazionali impreviste e accessibili allo spettatore: icone appunto, e poetiche insieme. E manca un sostrato simbolico, una percorribilità del testo cinematografico che, senza sovraesposizioni di contenuto, sia lì a infittire nel suo ornato la storia, al di là dei fili grossi dell’intreccio.<br />
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L’omonima protagonista di questo lungometraggio è un’attrice australiana alle prime armi, trasferitasi a Hollywood. Corre da un’audizione all’altra, come una forsennata, a scapito della propria individualità. Certo, il metodo Stanislavskij – che non mira tanto alla perdita dell’individualità, quanto alla perdita della personalità sostituendola con un’altra mimetica – può produrre simili effetti psichici se un’attrice, anziché dedicarsi a un ruolo per volta, è costretta a interpretarne frammentariamente una tale quantità da non essere in grado di mimetizzarsi in nessuno. Altro che Debra Winger o Jennifer Jason Leigh, che spendono mesi a preparare i propri ruoli: per Ellie quattro, cinque personaggi al giorno diventano un vero problema.<br />
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Il film, benché tagliato su registri amatoriali e girato in videocamera, non è per questo meno artato della più controllata iconografia di un prodotto delle major hollywoodiane. Di trucchi, in <i>Ellie Parker</i>, ce ne sono fin troppi, a cominciare dalla recitazione sopra e sotto le righe della parossistica Naomi Watts, che passa in rassegna un articolato ventaglio di registri espressivi, tranne quello naturalistico, tenuto ermeticamente nel fondo del suo vaso di Pandora. Ne esce fuori tutta una serie di situazioni grottesche, senza soluzione di continuità, che ricalcano l’esilarante cattivo gusto di una Jenny McCarthy, ma, pèrsone il disarmante candore, si presentano sotto l’angosciante velo della tragicità. In questo Watts è attrice che sa mettersi in gioco, al punto da proporsi nel più smaccato neodivismo, con mani infilate fin in fondo alla gola e una mimica da ossessa.<br />
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<i>Ellie Parker</i> è un manuale di tutto ciò che non si dovrebbe fare, non solo nel cinema hollywoodiano o in spettacoli di prima serata alla TV, ma nella vita quotidiana in genere. La malcapitata depressa Ellie è seguita ovunque con la videocamera, dall’automobile alle sue penose audizioni, dalla camera da letto alla tazza del water, in una continua reificazione della sua immagine. Qualsiasi intimità, partecipazione emotiva, indulgenza sentimentale, condivisione di idee, prerogative e aspirazioni con la protagonista ci è negata per eccesso di esteriorità.<br />
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La recitazione di Watts è chiara su questo punto: l’attrice australiana interpreta un personaggio banalissimo, con una recitazione che ha del dilettantesco, lontana anni luce (se non per l’istrionismo) dalle sue straordinarie prove in <i>Mulholland Drive</i> (2001) di Lynch e <i>21 grammi </i>(2003) di Iñárritu. Si conforma alla voluta apoeticità del film, al continuo negarsi e contraddirsi dei registri, alle atmosfere frammentistiche prodotte dai repentini incessanti ribaltamenti di situazione. Al punto che, abusato, il meccanismo diegetico si inceppa, ravvivato appena, <i>deus ex machina</i>, dal duetto fra Watts e quell’icona del cinema hollywoodiano che è Chevy Chase, esilarante meno del solito, ma pur bravo nel togliersi di dosso la sua patina iconica.<br />
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Scott Coffey è spietato, non tanto nella sua critica metalinguistica al cinema (che mi sembra ormai di moda), ma per quello che riguarda il senso dell’immagine umana in genere. Indulge sul bel viso di Watts, ma subito ne spezza ogni incanto, costretta qual è a farci ridere della sua disperazione e a non concederci nulla di sé, meno che mai la propria icona. Basta un movimento un po’ impacciato dell’obiettivo per far perdere l’intimità con un bel viso, e Coffey dimostra di saperlo.<br />
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Naomi Watts, che è anche il produttore del film insieme a Coffey, è, qui, non solo l’anti-Garbo e l’anti-Marilyn, ma anche l’anti-Swinton di Jarman: l’omaggio del regista alla sua attrice è negato. L’effetto, voluto o non voluto, è che ci fa venire nostalgia dei maestosi antecedenti. Perché il metalinguaggio del cinema accresce la nostra sensibilità e discrezionalità critica, ma con il cinema ci piace anche sognare, tenere aperti spazi di umana progettualità.<br />
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Alla fine del film si resta con la domanda: com’è veramente Ellie Parker? Ragazze disperate come lei, benché possa importarcene poco, esistono per davvero. Un intero film su Ellie non ce l’ha fatta conoscere meglio. Il taglio sadico del regista, che ci fa ridere delle disavventure della sua eroina, mette in luce proprio la banalità della vita altrui che scorre nell’impotenza individuale di farsi riconoscere, da noi spettatori come dai suoi interlocutori, in una città che non le vuole bene.<br />
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La satira sul cinema proposta da Coffey finisce per essere una critica all’anestetismo che per noi, nella società moderna, è diventato pane quotidiano. Peccato per l’effetto monocorde che, a forza di essere sopra e sotto le righe, il film non riesce a scrollarsi di dosso. <br />
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[pubblicato su <a href="http://www.controluce.it/">Notizie in... Controluce</a>, maggio 2007.] <br />
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Il trailer del film:</div>
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</span>Nicola d'Ugohttp://www.blogger.com/profile/15504174801531073127noreply@blogger.com0